TONINO CASULA | INTERVISTA ZERO
1 | Qual è l’idea (teorica e/o formale) al centro della tua ricerca artistica?
L’idea che sta al centro della mia ricerca è la messa a punto dei processi linguistici, adeguati a una concezione astratta del cinema, dove la “fabula”, cioè, non sia la narrazione di eventi reali.
2 | Da quanto tempo lavori con questa idea e perché?
Da una trentina di anni, più o meno. Potrei rispondere perché l’arte è la forma più alta di conoscenza. In realtà è come quando ti innamori, che non sai mai perché accada.
3 | Il mezzo espressivo e i materiali che utilizzi nella tua ricerca, quali questioni – concettuali e tecniche – ti portano ad affrontare?
Il mezzo espressivo è il computer. Attualmente, i materiali provengono da cortronici elaborati da me precedentemente, oppure dalle diafanie, elaborate ancor prima (intorno agli anni ’80 del secolo scorso). Le questioni concettuali sottendono ancora il rispetto di uno statuto scientifico che riguardi l’arte, adombrato già nei primi anni ’60, in occasione della nascita del Gruppo Transazionale. Le questioni tecniche riguardano il controllo linguistico, diretto al continuo riciclo dei miei stessi materiali.
4 | Descrivi il processo di lavoro con cui realizzi le tue opere e l’esperienza da cui ha origine.
Contrariamente a ciò che avviene nella costruzione di un film tradizionale, il mio lavoro non è guidato da copioni, sceneggiature, storybord e quant’altro, preliminarmente progettati, bensì da un’idea iniziale tanto semplice, quanto vaga: per esempio, andare a vedere cosa succede nella finzione, se oggetti trasparenti interagiscono con oggetti opachi, oppure con oggetti trasparenti a loro volta. Diciamo che, nella costruzione dell’opera, per quanto i materiali non siano più gli stessi, continuo a comportarmi come quand’ero pittore, una pennellata dopo l’altra su una tela bianca, fino alla chiusura, che non so e non sapevo quale sarebbe stata, prima di arrivarci. L’origine di questa esperienza? Non ne potevo più degli oggetti a forma quadrangolare da appendere ai muri, detti quadri, troppo fastidiosamente legati a ricerche del passato.
5 | Definiresti questo processo un “metodo progettuale”? Perché?
Certamente, lo è per me, anche se il progetto come tale non mi intriga più di tanto. Progettare significa farsi venire in mente un’idea sublime da vestire a festa in forma artistica, talché tutti possano dire “Ah, però” e, magari, cadere in deliquio (sindrome di Stendhal). Io non credo che gli artisti siano depositari di pensieri sublimi, più di quanto non lo siano quelle che, con un filo di arroganza, si chiamano persone comuni. Io credo che, più di queste ultime, gli artisti amino follemente lavorare con i Segni che, come si sa, stanno al posto della cosiddetta realtà, senza essere la realtà di cui stanno al posto. Gli artisti non vestono a festa un’idea dopo aversela pescata nella mente, ma la fanno germinare solo da processi linguistici. Solo attraverso tali processi può capitare che nascano, purtroppo molto raramente, i pensieri sublimi. E, tanto per dirla tutta, anche per gli scienziati è così.
6 | Che importanza riveste la progettualità nel tuo lavoro?
L’ho appena detto: andare a vedere cosa succede se…
7 | Che rilevanza hanno, e come influiscono, nella tua produzione, le pratiche di tipo collaborativo?
Nei primi anni ’60 del secolo scorso, ho fondato, assieme a Ermanno Leinardi, Ugo Ugo e Italo Utzeri, il Gruppo transazionale. Era il tempo in cui l’idea di gruppo era considerato bella in quanto rappresentava il collettivo, il noi, mentre quella di individuo era considerato brutta in quanto rappresentava l’io egoista, definito spesso come piccolo borghese. Allora, le pratiche di tipo collaborativo erano fortemente condizionate dalle ideologie correnti: condizionavano quelli del Gruppo transazionale, come quelli del Gruppo T, del Gruppo N, ecc. Il paradosso era che si riunissero in gruppo anche gli artisti, cioè gli individui che più individualisti di loro non c’era nessuno, in buona sostanza, non molto diversi dei piccoli borghesi , anche se preferivano non considerarsi tali. La verità è che le pratiche di tipo collaborativo tra artisti non potevano significare, per dirne una, la realizzazione collettiva di un’opera. Tutt’al più, potevano dare vita a un progetto, parlandone. Solo che le parole viaggiano su territori che non sono quelli delle immagini e, soprattutto, gli artisti visivi lavorano alle loro opere per vedere cosa succede se, e ciò che succede lo vedono solo dopo che è successo. Dunque, non potevano parlarne prima che succedesse. A dirla diversamente, le immagini non erano e non sono parolabili. A meno che si sottopongano a una traduzione in parole che, però, ne tradisce inesorabilmente il significato. Non posso tacere tuttavia che il mural della scuola elementare Toti di Monserrato sia un’opera collettiva del Gruppo transazionale. Ma non posso affermare che si caratterizzi come transazionale il suo linguaggio.
8 | Parlaci del momento in cui consideri un’opera o un progetto “finiti”.
Un’opera è finita, quando sembra non esserci più nulla da aggiungere o togliere.
9 | Qual è l’opera più rappresentativa del tuo percorso artistico?* Per quali ragioni?
Non ce n’è una in particolare, come avviene con i figli, posto che essi rappresentino in qualche modo i genitori. Ogni volta che ne porto a termine una, mi sembra che non sia quella buona, mentre spero che lo sia la prossima. Ma è tutta la vita che la inseguo.
10 | Qual è l’opera incompiuta più significativa nel tuo percorso artistico?* Che valore ha assunto questa esperienza nella tua ricerca e per il tuo metodo di lavoro?
Spero sia quella che si troverà ancora chiusa nel mio computer, quasi finita, dopo che avrò tirato le cuoia. Allora, purtroppo, non potrò rispondere alla seconda parte della tua domanda.
11 | In che modo la tua produzione artistica si relaziona con il contemporaneo (in termini di idee, linguaggi, metodi, strumenti) e si proietta verso il futuro?
I miei neuroni a specchio si sono sempre curvati verso i massimi artisti venuti prima di me. Mi sono sempre domandato come avessero vissuto il loro tempo. Mi sono sempre sforzato di imitarli, cercando di vivere pienamente il mio. E faccio sempre le differenze fra quando le immagini si facevano a mano, e oggi che le immagini si fanno da sole; fra quando lo spazio si misurava a spanne, e oggi che si misura in anni luce; fra quando Durer si metteva in viaggio verso i mari del nord, arrivandoci dopo chi sa quanto tempo, per vedere una balena spiaggiata, e oggi che quella balena posso vederla spiaggiarsi in diretta televisiva. La domanda che continuo a pormi, sempre con i miei neuroni curvati verso i massimi artisti, è questa: come essi avrebbero vissuto il mio tempo? Forse è una stupida domanda. Forse per questo non ho ancora trovato la risposta.
Tonino Casula | Intervista Zero
a cura di Eleonora Angiolini e Laura Vittoria Cherchi