JOSEPHINE SASSU | INTERVISTA ZERO
Parole
…le parole che liberamente affiorano nella mente quando si lavora, e quelle che servirebbero poi a restituirle per iscritto, sono separate da una distanza enorme. Per queste ultime ci vuole sapienza e competenza. Per mia fortuna, alla testardaggine di rendere in forma scritta alcune idee che mi passano per la testa quando mi dedico ai miei lavori, è arrivato in aiuto un amico…
Seguendo quel suo consiglio ho preso le parole che a volte sento girare nel mio studio e nella mia testa – quelle dell’indice di questo libro* – le ho infilzate, e le ho appese. Come carte moschicide. E ho aspettato che qualcosa del pulviscolo vagante nell’aria vi restasse attaccato. Sperando anche che quelle parole, esposte con tanta evidenza, traessero da sé una qualche potenza e, soprattutto, una loro forza magnetica capace di attirare riflessioni, ricordi, dubbi e stupori. E questi, incollandosi alle parole, ripulissero l’aria circostante**.
* Vivente; Adornos; Fossi; Tatto; Vista; Ritratto; Grammatica; Attrezzi; Linea; Pittura; Ispirazione; Paesaggio (n.d.r.)
** Tullio Pericoli, “Arte a parte”, Adelphi Edizioni, 2021
Quali sono le parole che affiorano nella tua mente (e nel tuo studio) quando lavori?
silenzio
(non ho parole, penso per immagini)
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1 | Qual è l’idea (teorica e/o formale) al centro della tua ricerca artistica?
Al momento non lo so più: quando ho iniziato il mio percorso artistico avevo le idee chiarissime e un sacco di certezze, che credevo assolutamente inossidabili; adesso mi ritrovo a seguire il flusso del mio stesso lavoro, il cui eco, naturalmente, mi rende riconoscibile, ma, allo stesso tempo, mi fa diversa, come una parola che, sussurrata consecutivamente da una persona ad un’altra nell’orecchio, in una fila di persone infinite, disposte in 25 anni, diventa un’altra cosa. Credo che immutata e costante, in tutti gli anni di lavoro, sia rimasta l’esigenza di una sorta di narrazione, più o meno onirica, che sottotraccia abbraccia tutte le mie opere.
2 | Da quanto tempo lavori con questa idea e perché?
In questo momento lavoro ad una serie di autoritratti, che ancora non ha un titolo preciso; lavorai anche nel 1999/2000 ad una serie, SPECCHIO DELLE MIE BRAME, che raccontava la risposta dello specchio alla mia domanda, dando un numero imprecisato di cattive risposte: SE NON FOSSI FAMELICA COME UN’ORCA, SE NON FOSSI AGRESSIVA COME UNA TIGRE, SE FOSSI ELEGANTE COME UNA GIRAFFA… Nel frattempo, sebbene il centro della mia indagine, in queste due serie, sia rimasta la mia vita, è cambiato tutto: se nella prima serie forma, tecnica e contenuto erano rigidamente incasellati, ora sono più libera.
3 | Il mezzo espressivo e i materiali che utilizzi nella tua ricerca, quali questioni -concettuali e tecniche- ti portano ad affrontare?
In tanti anni di lavoro ho utilizzato materiali e tecniche diverse e forse una delle costanti è la semplicità di esecuzione; dico sempre che quello che faccio lo potrebbe fare chiunque: quando ho cucito, l’ho fatto con il punto base del rammendo; quando ho fatto piccole sculture, ho usato la plastilina, come i bambini; ora che sto facendo la nuova serie di autoritratti parto da un semplice selfie e delle applicazioni pescate gratis nel web… un’idea a me cara è che un manufatto assurga ad oggetto d’arte, non tanto per la straordinarietà tecnica e l’eccellenza materiale, ma per un piccolo, magico, salto quantico, che fa la differenza.
4 | Descrivi il processo di lavoro con cui realizzi le tue opere e l’esperienza da cui ha origine.
Anche in questo caso non posso dare una risposta univoca e chiarissima: quando iniziai a lavorare, più di 25 anni fa, l’input poteva essere una frase trovata nell’etichetta di un detersivo, come NON DISPERDERE NELL’AMBIETE DOPO L’USO (1998), oppure una certa situazione suggerita da un romanzo, come in SOGNI D’ORO (1998), in cui mi ispirai a SONNO PROFONDO di Banana Yoshimoto. Ora mi capita di seguire un filone lasciato aperto, come per le sculture di plastilina o i grandi disegni a muro, sentendomi molto libera nel declinare il lavoro a seconda delle esigenze. Credo che, per lo più, in ogni mio lavoro, ci sia una sorta di sintesi narrativa; le immagini sono il prodotto da una distillazione che le separa dal superfluo, per renderle il più concentrate ed efficaci possibile.
5 | Definiresti questo processo un “metodo progettuale”? Perché?
Certo che è un metodo progettuale ma non esente da eccezioni, che però ne confermano la regola. Quando affronto un lavoro, specie se mi viene richiesto un’opera site specific, sgrano il mio rosario metodologico e arrivo a consolidare l’idea e a realizzare l’opera.
6 | Che importanza riveste la progettualità nel tuo lavoro?
Per molto tempo il rigore metodologico è stato fondamentale: pur non immaginandomi come futura artista, durante gli studi, l’impostazione progettuale si è consolidata già in piena adolescenza, frequentando l’istituto d’arte. Con il tempo, ovviamente, il mio modus operandi si è personalizzato ed è maturato e, al momento, iniziando un nuovo lavoro, spesso la parte embrionale dell’opera (idea e materiale) scatta default.
7 | Che rilevanza hanno, e come influiscono, nella tua produzione, le pratiche di tipo collaborativo?
Non ho mai prodotto un’opera a più mani, cosa che mi piacerebbe realizzare, però questo non esclude che il lavoro non sia frutto di pratiche collaborative: per me la parte fondamentale del lavoro è l’idea e questa, spesso, nasce dalla collaborazione con il critico/curatore. Più volte sono stata invitata a misurarmi con temi che mai avrei pensato di affrontare autonomamente e i risultati ottenuti sono stati sorprendenti, sia per me e per le persone coinvolte. Sono occasioni speciali, salti quantici indispensabili per non cristallizzarsi nel proprio mondo.
8 | Parlaci del momento in cui consideri un’opera o un progetto“finiti”.
Racconto sempre che mia madre mi chiamava “Mezzafaccenda” e credo lei avesse capito benissimo un aspetto, fondamentale e incurabile, della mia natura: se in fanciullezza lasciavo troppe cose a metà, ora non le considero mai finite. Non credo questo sia frutto di insicurezza e, solo marginalmente, è legato al perfezionismo, che vorrei avere ma che non ho; piuttosto immagino qualsiasi cosa, sia una mia creazione, che la realtà che mi circonda, come facente parte di un flusso inesauribile e potenziabile e, quindi, la mia opera è solo una tappa di questo continuo fluire lavoiseriano.
9 | Qual è l’opera più rappresentativa del tuo percorso artistico? Per quali ragioni?
Quella che farò tra qualche anno, perché vorrà dire che ancora sentirò di avere idee da portare avanti.
10 | Qual è l’opera incompiuta più significativa nel tuo percorso artistico?Che valore ha assunto questa esperienza nella tua ricerca e per il tuo metodo di lavoro?
Considero, in qualche modo, tutte le mie opere incompiute; forse perché, spesso, lavoro con delle serie, (come in questo momento, la nuova serie di autoritratti), quindi potenzialmente infiniti. L’idea di incompiuta, nei miei lavori, è anche rafforzata dall’uso di materiali fragili: anche inconsciamente, alle opere di un artista, è associata l’idea della sopravvivenza, paradossalmente eterna, al suo autore e, a me pare il mio modus operandi, sia carico anche di una certa inconcludenza postuma. La scelta di essere apparentemente così sgangherata, però, è il punto focale della mia stessa forza: tutti gli elementi raccontati mi permettono di immaginarmi come una grandissima artista di valenza planetaria, il mio unico limite rimane esclusivamente quello economico, che non mi permette sempre di portare alle estreme conseguenze un’idea. Ma anche quest’ultima cosa, in fondo, è parte del motore che mi spinge ancora a lavorare.
11 | In che modo la tua produzione artistica si relaziona con il contemporaneo (in termini di idee, linguaggi, metodi, strumenti) e si proietta verso il futuro?
In un remotissima primavera, a Roma, con degli amici, per la ricerca dei materiali per le nostre tesi, riuscì a convincerli a venire con me per vedere una mostra di Lorenzo Lotto, che però si era conclusa un anno prima; la mia dislessia mi aveva fatto confondere il prima con il dopo… o il dopo con il prima… comunque sia, a parte per ovvie ragioni fisiologiche, per me il tempo scorre in tutte le direzioni e così anche il contemporaneo: linguaggio dell’arte, di volta in volta, diventa, per me, l’involucro di un carico di urgenze temporali che mi fanno vedere ogni opera, di qualsiasi tempo e luogo, contemporanea a se stessa. Certo non posso prescindere dal qui e ora, ma scorrazzare nella linea del tempo, a me sembra, dia maggiore comprensione di quello che significa veramente contemporaneo oggi: in una realtà in cui i luoghi diventano sempre più non luoghi e ogni situazione si fa sempre più liquida, anche i linguaggi dell’arte sono palesemente liquefatti e, a parte una serie di vertenze pratiche, legate alla reale appartenenza quel mondo dell’arte che veramente conta, riuscire a confrontarsi e fondersi con il contemporaneo non è impossibile per nessuno.
12 | Secondo te, oggi, la creazione/produzione artistica tout court, con quale questione/ problema/ domanda non può fare a meno di confrontarsi?
Nel nostro mondo, massificato e globalizzato, l’azione creativa tout court è un vero e proprio atto di disobbedienza e resistenza. Ma è veramente necessario? Utile a qualcosa? Interessa veramente a qualcuno? Non essere al centro di niente, lontano dalla sala dei bottini, e malgrado questo continuare ad insistere nella propria opera, è un po’ utopia e, per il resto, una vera e propria mission, che conferma l’antica differenza tra la prima scimmia che scese dall’albero e la sua bizzarra discendenza.
Josephine Sassu | Intervista Zero
a cura di Eleonora Angiolini e Laura Vittoria Cherchi