GIANNI CASAGRANDE | INTERVISTA ZERO
Parole
…le parole che liberamente affiorano nella mente quando si lavora, e quelle che servirebbero poi a restituirle per iscritto, sono separate da una distanza enorme. Per queste ultime ci vuole sapienza e competenza. Per mia fortuna, alla testardaggine di rendere in forma scritta alcune idee che mi passano per la testa quando mi dedico ai miei lavori, è arrivato in aiuto un amico…
Seguendo quel suo consiglio ho preso le parole che a volte sento girare nel mio studio e nella mia testa – quelle dell’indice di questo libro* – le ho infilzate, e le ho appese. Come carte moschicide. E ho aspettato che qualcosa del pulviscolo vagante nell’aria vi restasse attaccato. Sperando anche che quelle parole, esposte con tanta evidenza, traessero da sé una qualche potenza e, soprattutto, una loro forza magnetica capace di attirare riflessioni, ricordi, dubbi e stupori. E questi, incollandosi alle parole, ripulissero l’aria circostante**.
* Vivente; Adornos; Fossi; Tatto; Vista; Ritratto; Grammatica; Attrezzi; Linea; Pittura; Ispirazione; Paesaggio (n.d.r.)
** Tullio Pericoli, “Arte a parte”, Adelphi Edizioni, 2021
Quali sono le parole che affiorano nella tua mente (e nel tuo studio) quando lavori?
Ritenendo di dovermi attenere quanto più possibile ad una descrizione veritiera di me stesso, non posso fare altro che sottrarmi davanti a questa domanda preliminare, non perché non mi sembri opportuna, ma perché se osservassi il limite dell’enumerazione proposta dovrei semplificare a tal punto il processo Mente/Immanente/Mentre/Lavoro da costringermi a fornire un vero e proprio FALSO proprio alla prima risposta: di fatto, credo non mi sia possibile ridurre in nessun modo e con nessuna formula a numero di 10 parole quello che in effetti è l’immanenza di un tutto, che fortunatamente so di non essere in grado né di governare e nemmeno di aspirare a volerlo fare; anche se certamente si potrebbe risolvere e comporre il tutto in una formula commisurata e semplice che, pur costringendomi a tagliare il nodo, mi permetterebbe di affermare:
1 > non
2 > racconto
3 > mai
4 > i
5 > sogni
6 > perché
7 > le
8 > parole
9 > non
10 > bastano
_
Ecco qua.
Mi sembra che quanto sono riuscito a ricavare abbia raggiunto quello stato di solidità magmatica che forse potrebbe rappresentare in modo veridico l’attuale ecosistema vigente nella mia mente, almeno nei suoi aspetti più presentabili.
Si potrebbe forse considerare tutto questo un resoconto, invece che un’intervista, e intitolarlo Una settimana nella mia mente…
Credo di avere sottovalutato il compito di rispondere a questa serie di domande, probabilmente perché, sin dalla prima volta, man mano che le leggevo le risposte mi venivano subito. Eppure, nel renderle in parole, mi è sembrato di non poter escludere da quella che a grandi somme potremmo definire la verità anche la possibile descrizione di quell’altalenante stato del Sentire che percepisco rispetto al muoversi del Mondo. Così giustifico il modo bizzarro con cui ho disposto lo svolgersi del testo.
1 | Qual è l’idea (teorica e/o formale) al centro della tua ricerca artistica?
Aspiro ad avere accesso all’immaginazione di chiunque, qualsiasi forma abbia la sua mente. È evidente persino a me stesso l’insensatezza di questo intento per la serie di innumerevoli motivi che chiunque potrebbe enunciare secondo la propria esperienza, fra i quali il più comune e, credo, il più possibile, potrebbe essere quello di non essere interessati in alcun modo a quanto cerco di comunicare, alle modalità che ho scelto per farlo e, per estensione, non solo alla mia stessa esistenza, ma anche a L’Arte in generale, se non in forma di uno dei suoi molteplici aspetti o apparenze da cui può ricavarsi un effettivo, concreto e tangibile utilizzo.
Personalmente, penso alla parola arte senza usare la lettera iniziale maiuscola, certo non per sminuirla, bensì per definire in modo più calzante la sua presenza nella mia esistenza quotidiana, nel corso della quale non mi verrebbe mai di scrivere in maiuscolo la parola forchetta.
Ho smesso di considerare l’arte come una specie di religione misterica della quale persino la comprensione dei termini con cui la si definisce pare essere riservata solo a chi ne è dedito o interessato per varie ragioni; e non credo più che continuare ad officiarla con la ripetitività quasi rituale nei modi ormai consueti con cui la si presenta (Esposizione oppure Enunciazione oppure Ostensione oppure Ostentazione) serva a sprigionarla, ma che invece in qualche modo la neutralizzi, riducendola a pretesto, ad ouverture per una prassi sociale, nient’altro che un semplice quanto transitorio argomento di conversazione.
[Detto questo, mi piace molto andare alle mostre, e probabilmente per motivi più attinenti ad un pretesto per stare con persone dai gusti affini ai miei, cosa di cui poco sopra ho dato l’impressione di lamentarmi, tentando invece di delineare una situazione che mi sembra veridica, se non oggettiva, visto che si tratta di osservazioni personali …]
[ed ora, quella che parrebbe una diversione rispetto all’onnivora domanda che mi è stata posta, e che a me, al contrario, pare piuttosto attinente …]
Ricordo con piacere le sporadiche occasioni in cui mi è stato chiesto di condurre un laboratorio in una scuola, e attualmente trovo di gran lunga più emozionante parlare agli studenti che vengono in visita a una mia mostra che con i sempre graditi adulti consenzienti.
In questi momenti, ottenere l’attenzione dei ragazzi mi pare un compito preminente, e sebbene più che altro sembrino gradire questa visita perché permette loro di uscire fuori dall’ordinario, non dimentico mai che vi sono stati condotti, e che potendo scegliere andrebbero da un’altra parte, o forse semplicemente riprenderebbero a brucare nelle illimitate vite altrui sempre disponibili nei loro schermi personali.
[… sapevo che il primo quadro che avremmo guardato sarebbe stato quello in cui Pollicina*, finalmente liberatasi del nuovo nome e delle ali da sposa elfica, rimette il suo guscio di noce in acqua e lascia la fiaba di Andersen per rifarsi una vita; ero certo che avrei dovuto riassumere la fiaba originale, così rilessi la breve sinossi trovata sul web prima di uscire; nessuno di loro aveva mai sentito parlare della fiaba; nessuno gliela aveva mai letta in quindici anni di vita; riassunsi pressoché l’intera fiaba, percependo l’ispessirsi istantaneo del loro annoiarsi, ma poi, giunto al nocciolo, conclusi dicendo … finalmente via da quel cazzo di fiaba, e tutti loro ridacchiarono, e cosi ci spostammo verso il prossimo quadro …]
* Leaving Wonderland – acrylic on paper – cm. 29,5×18 – 2018
https://ello.co/giannicasagrande
Per quanto mi lusinghi molto che osservino il mio lavoro, cosa che credo possano e debbano fare benissimo da soli, cerco di trovare il modo di svelare quanto più possibile di quell’attività mentale (il processo!) che ha condotto non tanto alla scelta del soggetto, quanto al modo in cui, errore dopo errore, strada sbagliata dopo strada sbagliata, ho infine ottenuto il quadro che abbiamo davanti, e che stiamo, in qualche modo, completando insieme, già che ci siamo.
Perché, allora, non spingermi sino a provare a descrivere anche i casi in cui è una parola ad esigere che io la renda forma?
E perché, visto che adesso stanno già imparando a celarsi, non mostrarmi incerto davanti ai loro occhi mentre provo a spiegare che in qualche modo l’incertezza è riflessione, che esitare a volte è l’istintivo subodorare che ci risparmia dal fare un passo falso e a volte permette di imboccare la giusta strada?
Che modo migliore avrei per invitarli a fare da sé qualsiasi cosa abbiano intenzione di fare, per esortarli a considerare il fatto inoppugnabile che un giorno saranno adulti, ma che per esserlo non devono necessariamente abiurare quello che sono adesso, e che quindi devono valutare come prezioso questo brevissimo segmento cronologico della loro vita, in cui la vista è acuta, il cuore sensibile, la mente chiara.
[ma come fare ad ignorare quella pellicola, quel loro contegno, come si muovessero all’interno di un loro personale, inviolabile, campo di forza, o fossero giocatori che non vogliono rivelare l’intenzione della prossima mossa …]
Se quindi voglio trarli in questo ragionamento, e dimostrare loro che quanto dico non riguarda solo me, non mi serve affatto, anzi mi intralcia, che io continui a stare nei panni del pittore, figura dei tarocchi, peraltro, che immagino essi stessi sappiano (o intuiscano) valga come il due di picche, almeno nell’odierno paesaggio sociale (a meno che non faccia i soldi, motivo per cui lo conoscerebbero certamente/spontaneamente). Comunque, sembrano sempre un po’ straniti dal fatto che io parli così tanto, per essere un pittore, uno che ancora lavora in 2D, e soprattutto sembrano accorgersi che nel mio dilungarmi divago, mi allontano dal quadro per parlare di qualcos’altro che sembra io debba dire proprio a loro, sensazione, questa, che spero proprio avvertano nettamente e in modo persistente, anche dopo avermi lasciato alle spalle.
In realtà, per me è facile parlare di me stesso come se ancora fossi preda delle altalenanti incertezze tipiche dello stadio crisalide dell’adolescenza, perché in buona misura credo che ancora sia così, visto che tuttora perseguo strade non dissimili da quelle che immaginavo allora e continuo ad attingere alla stessa immaginazione che, sebbene trovata in me dall’inizio, probabilmente mi si è rivelata proprio a quell’età, adolescente come loro, e da là in avanti ho usato sempre e comunque.
Per questa ragione, spero ogni volta di aver permesso loro di capire quanto nel mio caso sia stato importante non tanto quello che scrivevo o disegnavo, ma il fatto di essere stato il testimone di me stesso mentre lo facevo, e che sono diventato adulto nel continuare a farlo …
[ “[…] noi siamo quel che facciamo finta di essere, sicché dobbiamo stare molto attenti a quel che facciamo finta di essere. […]”
Kurt Vonnegut, Madre notte ]
Non potrei avere una percezione della complessa trama con cui si è svolto il divenire di quello che a questo punto sono – qualsiasi cosa sia – se lungo questo cammino non mi fossi ostinato a lasciare tutte queste tracce, questi foglietti e biglietti, ognuna recante la mia impronta inequivocabile ma sempre un po’ diversa, a disposizione del futuro me stesso, perché potessi tenerne conto, qualsiasi cosa avrei potuto diventare, magari vedere se un domani le si potesse migliorare, e se non farne qualcosa, almeno per sapere che questo ho fatto e questo sono stato.
… E spero davvero, infine, che i miei giovanissimi astanti, e specialmente quelli che, dopotutto, non sembrano ancora convinti dalla mia dimostrazione, abbiano la sensazione che non sembro proprio un 2 di picche, e che se solo avessi voluto avrei potuto benissimo fare qualsiasi altra cosa …
[Di fatto, oltre che mostrarmi quale l’adulto difettoso che sono, la finalità delle mie perorazioni, anche nel caso che la maggioranza di loro non fosse interessata a dedicarsi all’arte né in futuro né mai – né tantomeno a qualcosa che somigli all’avventura contorta cui mi sono destinato, é quella di provare a dargli almeno una dimostrazione di quanti e quali possano essere gli strati retrostanti le semplici apparenze, e che osservando le cose si prende la buona abitudine di inoltrarsi nella vita ponendosi domande.]
Oppure, l’alternativa …
[E se qualcuno che trovi approssimativo o addirittura deleterio questo mio metodo empirico e arbitrario, che comunque è ciò che realmente penso di dover dire e non una sua versione strumentale, mi si dica allora perché, pur avvalendosi di metodi didattici più appropriati e consueti di quanto non sia quello da me descritto, la trasmissione della cultura non è sinora servita a che essa faccia parte della dieta delle giovani generazioni, almeno quanto lo sono le tecnologie e gli zuccheri. Di quali prove ulteriori abbiamo bisogno per convincerci che l’arte non solo non è mai riuscita, ma ancora non riesce ad essere meno che marginale rispetto alle dinamiche con cui il Consesso Umano esercita la propria relazione col Restante?]
2 | Da quanto tempo lavori con questa idea e perché?
Tutta la notte, ma anche buona parte del giorno.
3 | Il mezzo espressivo e i materiali che utilizzi nella tua ricerca, quali questioni-concettuali e tecniche ti portano ad affrontare?
Ho affrontato la pittura incautamente, probabilmente perché anche quando ero bambino ho sempre avuto un approccio naturale con la raffigurazione, abituato a sfogliare i giornali a fumetti prima ancora di saper leggere, o meglio, leggendo i disegni e ignorando le parole.
[Ma ho intuito sin da subito che lavorare nel mondo del fumetto seriale sarebbe stato un processo ripetitivo, che in qualche modo avvertivo come estraneo all’immaginazione – o almeno alla forma balzana e incostante di cui disponevo, forse non molto dissimile da quella di cui dispongo ora.]
Quando infine, in prima elementare, imparai a decifrare le parole, quasi contemporaneamente mi si impose l’idea di diventare uno scrittore, un proposito che mi ha accompagnato per anni e su cui da allora in poi si sarebbe focalizzata la mia attenzione, anche se continuavo a disegnare ininterrottamente, lasciando che la mano si svagasse, quasi lasciata sola, con una scioltezza che avrei dovuto avere per trasporre in parole le configurazioni che immaginavo.
Tuttavia, sebbene non mi sia mai sentito pienamente soddisfatto dei risultati ottenuti (se non in rari casi, che comunque continuano a sembrarmi perfettibili), credo che la scrittura, oltre al modo in cui percepisco le cose, abbia determinato le caratteristiche del mio lavoro, anche ora che dipingo e mi pare di aver raggiunto quella che considero la migliore forma narrativa da me sinora ottenuta, proprio perché in grado di fare a meno di funzioni verbali per essere esplicativa di se stessa.
[Piuttosto, penso che la mia scrittura non trovi il motivo di attuarsi, e che, se non di un motivo, si aspetti da se stessa un modo per manifestarsi che non sia collaterale, accessorio o aggiuntivo, ma ulteriore e co-eguale a quello che attualmente riesco a trasmettere con la pittura.]
4 | Descrivi il processo di lavoro con cui realizzi le tue opere e l’esperienza da cui ha origine.
Penso di poter definire come non-lineare il mio metodo di lavoro, così come potrei affermare che la mia formazione – e quindi anche ciò in cui ora consisto – è frutto di una ibridazione continua che ha assorbito ed espulso una quantità non commisurabile di elementi, e per fortuna ancora rifiuta e assimila con la regolarità funzionale di un organo, di cui però ammetto di avere una consapevolezza relativa, se non quando percepisco cambiamenti di prospettiva più o meno marcati senza essermi accorto di aver cambiato posizione, e spesso nel constatare l’atrofia della mia reazione emotiva rispetto a certe cose che abitualmente mi provocavano emozione.
Ogni mattina, ma penso di potervi includere anche il pomeriggio, prima di iniziare a lavorare, temporeggio per un po’, ascoltando musica, in genere, o frugando nel computer, comunque cercando di ignorare e spesso di non guardare affatto in direzione del lavoro lasciato in sospeso, sperando che quando gli sarò davanti potrò guardarlo come una cosa qualsiasi, almeno per quell’istante sufficiente a individuare il punto da cui ricominciare.
Cercare di eludere me stesso con la pittura è assai più facile che farlo con la scrittura, che ho abbandonato a lungo proprio perché non ho mai smesso di percepirmi come orditore imperfetto, incapace di non lasciare tracce della propria incerta trepidazione, pagine che non sono mai state in grado di sembrarmi scritte da quell’Altro che invece ora mi pare agisca a proprio agio nei miei quadri, distratto da sé.
5 | Definiresti questo processo un “metodo progettuale”? Perché?
Forse per via del fatto d’essere nato negli anni ’60 del secolo scorso, la parola progetto mi sembra ancora attenere ad aree specifiche (ingegneria, architettura, agronomia), e solo da alcuni anni ho cominciato a notarne l’uso sempre più assiduo che se ne fa in ambito artistico.
Credo sia naturale che l’arte adotti e assorba in sé i termini del linguaggio dell’epoca in cui si manifesta, e direi che è preferibile all’uso di luoghi comuni, che paiono ormai stucchevoli e stantii come ordinarie canzoni d’amore o belle frasi di autori morti citate per scopi che infine sono sempre un po’ banali.
Per quanto non abbia nulla da eccepire rispetto al sentirsi depositari di capacità attuative specifiche cui attenersi, continuo a pensare a me stesso come continuamente dedito ad immaginare, dando per scontato che devo adottare un metodo, se da questo processo voglio ottenere qualcosa di reale, sia che si tratti di un quadro, di un piatto di pasta, di questo stesso testo, ed è implicito che questo metodo debba essere variabile, opportuno a questa o quella circostanza, e non a qualcosa cui dovrei attenermi.
6 | Che importanza riveste la progettualità nel tuo lavoro?
[Devo ammettere di sentirmi inadeguato, rispetto alla semplice puntualità di domande come questa, o comunque incapace di rispondere in modo altrettanto lineare, senza sembrare ai miei stessi occhi come qualcuno cui sia stato dato l’incarico di compilare un testo per la quarta di copertina che tratteggi il contenuto di un libro, per il cui svolgersi è stato invece necessario scrivere per pagine e pagine.]
Il processo – di cui è probabile non sia stato finora capace di fornire una definizione accettabile – è continuo e indistinguibile da altre funzioni di cui in genere non mi viene chiesto di rendere conto, e in me è stato e probabilmente continua ad essere alimentato dal DESIDERIO, in più di una delle possibili accezioni di questo impulso.
7 | Che rilevanza hanno, e come influiscono, nella tua produzione, le pratiche di tipo collaborativo?
Nel 2009 ho dedicato più o meno l’intero anno ad un progetto video/fotografico prodotto da un ente museale a cui, chiamato dall’artista incaricato, avevo accettato di collaborare in qualità di assistente (ignaro che questo ruolo avrebbe richiesto da parte mia la stessa versatilità di un coltellino svizzero);
questo ha comportato:
a) alla fine della collaborazione, protrattasi in realtà per circa 6 o 7 mesi, ho impiegato i restanti mesi dell’anno a cercare di ritrovare la mia percezione della pittura, che nel frattempo mi ero astenuto dal praticare, e che mi sembrava attenuata, se non irrimediabilmente svanita;
b) sebbene sapessi dall’inizio che non sarei stato remunerato, risultò sembrare notevole – forse a causa dell’astenia della mia immaginazione – il protrarsi di una vacuità economica rispetto alla quale credevo essere abbastanza abituato;
c) ha acuito il mio scetticismo rispetto a un concetto di collaborazione che sia generico ed imprecisato;
ma nonostante questo penso che sia stata per me un’esperienza formativa fra le più importanti, nel corso della quale ho appreso alcuni insegnamenti di cui mi avvalgo tuttora come fossero vecchi attrezzi affidabili.
Penso che le collaborazioni nascano per un sentimento, a seguito della sensazione che si potrebbe dare luogo a qualcosa che non potrebbe verificarsi se non la si facesse assieme; ma non funzionano se, come col sesso, avvengono solo perché ne hai avuto la possibilità, senza avere percepito abbastanza della persona con cui sei entrato nel letto.
Quando ho iniziato a dipingere, è stato perché immaginavo che con la vendita dei quadri avrei potuto fare un film (paradigma perfetto di attività collaborativa), e da allora in poi darmi al cinema; perciò, dipingo perché allora non sono riuscito nel mio intento.
Ancora mi dicono che avrei dovuto insistere, col cinema, la musica, la scrittura, come se non stessi facendo insieme tutte queste cose, come se non fossero convinti quanto lo sono io quando sostengo che ognuno dei miei quadri è un film a basso costo che ipotizzo si possa svolgere in tutte le sue variabili nelle sinapsi dell’eventuale Osservatore, convinzione sostenuta dal fatto che in genere quest’ultimo è un Organismo Culturalmente Modificato.
Questo non implica che io non desideri o che abbia qualcosa in contrario alla collaborazione, che invece mi pare essere ed è necessaria sotto molti aspetti, e non mi pare di averla mai negata, sempre che il mio apporto sembrasse opportuno.
Negli ultimi cinque anni, ho proposto a tre persone diverse quello che si sarebbe detto un vero e proprio Progetto.
Forse perché pensavo fosse destinato alla fruizione di un pubblico di là a venire, e sebbene avessi le idee ben precise e le avessi esposte in una sinossi così articolata e indicativa da poter essere definita una bozza di sceneggiatura, non volevo realizzarla da solo, immaginandola chissà perché eseguita da un’altra mano, magari coi tratti di chi è cresciuto in compagnia delle animazioni seriali giapponesi, e ha imparato a clonare quei grandi occhi luccicanti, riuscendo persino, al contrario di me, a godersi le storie nonostante l’invariato, impossibile dinamismo statico degli sfondi.
Se ne parlo, è evidente che tutte le persone interpellate hanno declinato, precisando però che l’idea era straordinaria/buona/geniale, ognuno infine chiedendomi: perché non lo facevo io; perché non cambiare il finale; perché avevo smesso di scrivere …
Mi riservo di svelare di seguito gli esiti di questa breve parabola.
8 | Parlaci del momento in cui consideri un’opera o un progetto“finiti”.
Lo so, sapendolo, senza averlo creduto possibile l’istante prima, pensando di doverci lavorare ancora, per un periodo che si sa essere sempre non quantificabile.
Alcune volte sembra finita, e smetti, visto che non fai altro che litigarci inutilmente, ma poi può darsi che riprendi, a volte, nel mio caso, anche dopo qualche anno, e mentre vai avanti capisci che era solo perché avevi perso il filo, o che non eri ancora abbastanza bravo, e che è stato un bene fermarsi.
Però, spesso mi piace tirarmi indietro senza aver terminato del tutto, lasciando a vista una porzione dell’ordito perché si noti come è fatto il tappeto, strati finali leggerissimi che lascino intravedere la corsa delle vene, e il sottostante …
Una volta, spiegandolo negli stessi termini mentre ne mostravo un esempio a qualcuno che fa il mio stesso lavoro (non ho motivi per non considerarlo un amico), mi sono sentito obbiettare che però in tal modo tutti avrebbero capito quali erano i miei trucchi, suggerendomi, forse, che così avrebbero potuto copiarmi…
Visto che non mi ricordo quale sia stata la mia risposta, credo che, almeno in quel caso, non sia stata né acuta né pronta, e che mi sia limitato a sollevare le spalle, incredulo che ne parlasse come di un esercizio ginnico o della ricetta segreta di qualche bevanda, ma penso sia anche per trascurabili, e innumerevoli, episodi simili a questo che cerco di non pensare al mio come a un semplice mestiere, per quanto sia esattamente quello che faccio per vivere.
[E in ogni caso non penso mai che sia finita.]
… come se non riuscisse a vedere quella inconfondibile e indelebile traccia genetica di ME …
9 | Qual è l’opera più rappresentativa del tuo percorso artistico? Per quali ragioni?
L’opera più rappresentativa del mio percorso artistico è, credo, il fatto che io sia riuscito di averne uno.
Avendo letto i Diari di Guerriglia di Guevara subito dopo (l’intero corpus di) Emilio Salgari, ignorai volutamente i consigli redatti dal corpo docente nel libretto di licenza media, in cui mi si raccomandavano vivamente studi d’indirizzo classico e/o artistico, per iscrivermi all’Istituto Tecnico Agrario (devo forse sottolineare l’arguzia del mio ragionamento? …), che abbandonai dopo aver ripetuto il secondo anno e frequentato il terzo quasi per intero.
Nel corso dei seguenti anni ho lavorato nei cantieri edili per quasi tutto il tempo, e uno dei motivi per cui non mi lamentavo era il fatto che ogni mese potessi comprare libri quanti ne avrebbe potuto comprare un professore appassionato, leggendo cose che immaginavo avrei dovuto leggere, continuamente alla ricerca di una completezza che solo in seguito avrei intuito non bisognerebbe mai augurarsi di avvertire come acquietata, potendomi permettere il lusso di interrompere la lettura senza alcun ritegno, quando mi sembrava che, chiunque l’avesse scritto, non meritava la mia attenzione.
Per una serie di coincidenze fortuite (un inverno particolarmente rigido che aveva determinato il fermo delle attività edilizie), avevo accettato di dare una mano nel negozio di un amico per il cui gruppo musicale scrivevo i testi, e visto che a quei tempi gli affari andavano bene, non esitai ad accettare quando mi si propose di lavorare nel negozio a tempo pieno, periodo che si protrasse più o meno per i dieci seguenti anni, al termine dei quali decisi di prendere la strada che mi ha portato al punto da cui vi parlo ora…
[ma è inutile, credo, continuare ad estendere ulteriormente questa risposta, che si dilungherebbe troppo in un contesto che non mi sembra opportuno, visto che non mi è stato chiesto di redigere una biografia. Penso sia più che sufficiente a “delineare uno spaccato del mio pensiero”]
10 | Qual è l’opera incompiuta più significativa nel tuo percorso artistico?Che valore ha assunto questa esperienza nella tua ricerca e per il tuo metodo di lavoro?
Come nel caso del precedente quesito sulla finitezza, rimango incerto sulla scelta delle possibili variabili della risposta.
Allo stesso modo del caso opposto, in cui decidere di smettere di lavorare al pezzo, considerarlo finito, non impedisce la sua transustanziazione nell’attraversare qualsiasi altro occhio che non sia il tuo, non può esistere una incompiutezza definitiva.
Attualmente ho interrotto fisicamente la lavorazione di circa quattro o cinque quadri, a volte sono meno, a volte di più; dovessi elencare anche i quadri che trasporto in memoria da anni e dei quali ormai cerco di ignorare i dettagli, sarebbero certamente molti di più.
Al posto di questi, però, per poter esaudire la richiesta indicata dall’asterisco, posso annunciare come imminente la ripresa di un lavoro interrotto che infine ho deciso di portare a termine da solo, sebbene, conoscendomi, presagisco inconoscibili difficoltà – ma ho i materiali, il che equivarrebbe a dire che il film è finanziato… Preferisco dire solo che si intitolerà Aftermath.
[contiene soluzione della parabola senz’esito esposta nella risposta .7]
11 | In che modo la tua produzione artistica si relaziona con il contemporaneo (in termini di idee, linguaggi, metodi, strumenti) e si proietta verso il futuro?
Dipingo a orecchio, usando il tatto per dare alla vista gusto e olfatto.
Potrebbe sembrare solo la sciocca filastrocca che è, eppure sono convinto che descriva esattamente quale sia stata la mia disposizione nel perseguire il mio intento di rendere apparente quello che immagino.
Credo che la mia maggiore preoccupazione sia stata sempre quella di cercare di non perdere il punto di vista che avevo quando ancora non immaginavo che questo sarebbe stato il mio lavoro.Considero il mio lavoro come una forma ulteriore e prosecuzione (ma direi esaudimento) di quanto mi frullava in testa e là restava, al tempo in cui ero a mia volta membro di una precedente prossima generazione, imprigionato dalla consapevolezza che io stesso avrei ritenuto accettabile essere considerato una mezza sega, e non vedevo il modo di fare uscire tutta quella roba.
[Riguardo alla posizione]
Nel corso della mia esperienza, osservo che il mio procedere in questo ambito indefinito mi ha condotto lungo un corso diverso, allontanandomi da quegli obbiettivi che mi sembravano primari e che credevo avrei dovuto necessariamente perseguire; forse molti definirebbero questa deviazione una deriva, che però mi ha portato gradualmente in aree in cui avverto meno il peso della mia formazione non conforme, e in cui mi sento molto a mio agio.
[Riguardo alla mia relazione con il contemporaneo, di seguito trascrivo parzialmente una nota allegata a un mio recente quadro intitolato I fatti come riportati nella motivazione del premio*]
* The facts as reported in the grounds for the award – acrylic on boarded paper – cm 40×30 – 2021
https://ello.co/giannicasagrande
[…] Fossi stato John Houston, il Governo del mio Paese mi avrebbe incaricato di fare un film documentario per dimostrare il valore dei Nostri Soldati, incoraggiare il maggior numero possibile di Cittadini Abili ad arruolarsi, e le Famiglie ad acquistare Buoni del Tesoro per contribuire allo sforzo bellico…
Ma così non essendo, il sottoscritto si è dato incarico di contribuire a suo modo ad avversare quel Nemico subdolo e trasparente che ha il suo fronte dappertutto e in ogni cosa, le cui conquiste od invasioni sono spesso rivelate da fattori minimi e inosservati, quale può essere quello d’immaginare la propria discendenza come composta da figli vezzeggiati e schizzinosi e pigri e paurosi piuttosto che desiderosi di imparare a fare le cose con le mani, a capire come commisurare il sembrare dall’essere, e per fare ciò ricavare da se stessi una propria scala di valori, un canovaccio da seguire nell’immaginarsi adulti, sino ad essere disposti ad affrontare persino le cose difficili, disgustose, faticose, quando necessario.
Perché sarà necessario.
In ogni caso, anche la scena da me raffigurata è un documentario, sebbene simultaneo, e secondo quanto attesta il titolo, che si sia d’accordo o meno, il Premio è stato assegnato.
12 | Secondo te, oggi, la creazione/produzione artistica tout court, con quale questione/ problema/ domanda non può fare a meno di confrontarsi?
L’A. non è una congregazione e nemmeno una confraternita;
L’A. parrebbe nata assieme all’uovo, ma questo è impossibile, perché essa è innegabilmente frutto della mente umana, l’unica fra quelle delle altre specie che sembra essere, in misura variabile, sensibile e consapevole della sua percezione;
come la manioca, non è commestibile se non dopo la sua accurata trasformazione, altrimenti è velenosa, soprattutto per chi la genera, se trattenuta dentro;
forse L’A. è un enzima, che se secreto ti fa vedere delle cose, e ti fa credere possibile che basti creare un congegno atto a manifestarle perché diventino reali;
se L’A. fosse un organismo senziente, composto di particole autonome come un formicaio o un alveare, dovrebbe ergersi a difesa del sistema nervoso e del cervello umano, nonché della tuttora ignota – per dimensione, varietà, dislocazione – area del Didentro dove si distilla quella misteriosa sostanza grazie alla quale ognuno sa di Sé;
[IN REALTÀ, sono stati i Surrealisti, nella loro intuitiva ignoranza, a scoprire l’esistenza dell’Inconscio, esplorandone gli accessi incautamente, coraggiosi e incoscienti come bambini, pur di trovare aree all’interno dell’Uomo in cui l’intelligenza non dovesse necessariamente condurre ad una maggiore efficienza nello sterminio dell’Altro;
IN SEGUITO è stata la Psicoanalisi ad arrogarsi il diritto di delimitarlo, dando nomi ad aree a cui, piantando bandierine quasi a caso, o comunque in un modo fra essi stessi controverso, hanno sancito una appropriata funzione e disfunzione rispetto a quella che s’immagina essere una Stele di Rosetta su cui interpretare un appropriato e ordinato comportamento sociale;
POI è arrivata la Pubblicità, Esploratrice del Commercio e Cortez della Prossima Trasformazione, che se ne frega dei Cosiddetti Effetti, e attacca cavi e affonda trivelle dovunque ci siano le succitate bandierine, presto soppiantate da significati più adatti allo scopo di ottenere e intrattenere col Soggetto una durevole relazione;]
ma se davvero L’A. non fosse che un Costrutto, un Ente sempre più imponderabile alla cui esistenza ci ostiniamo a credere, e davvero si trattasse dell’equivalente di una Mente Madre avente gli artisti come sciame, questi ultimi, al contrario delle api omologhe, non potrebbero comunque contare sulle infallibili mappe già decifrate e utilizzabili allo schiudersi dell’uovo, lungo vie chimiche o magnetiche o luminose che li condurrebbero nella giusta direzione;
in ogni caso, se la sua natura fosse quella postulata, non potrebbe che avere tante teste quante le cellule che la compongono, nessuna delle quali potrebbe essere come le altre, e nemmeno si dovrebbe credere che una delle sue voci possa avere un timbro uguale alle altre, né che possa parlare la stessa lingua, o che dica quello che direbbero le altre;
ma ammettendo che L’A. questo organismo sia…
L’A. dovrebbe farsi carico indefinitamente di continuare a causare l’accensione di una sempre maggiore quantità di piccole luci dislocate e contrarie rispetto agli Schermi Centrali, sperando di offuscare il più possibile l’omogeneità del loro bagliore;
L’A. dovrebbe smetterla con questo porsi a perpetuo stupore, con questo aggettivarsi ulteriormente sino a sparire dietro un inestricabile incomprensibile significato insignificante, e finalmente disattendere questa inesausta e compulsiva richiesta di Bellezza, dato che quella generata sinora è indubbiamente tanta, ma a tanto è servita;
[chi crede di poter sostenere ancora di non aver capito, di non sapere quale sia il Bersaglio, e di ignorare chi sia stato a designarlo? E inoltre, chi potrebbe ragionevolmente continuare a credere che basta saperlo?]
Oppure…
[ … salire per l’ennesima inutile volta sull’Everest per provare la … ::: sensazione ::: ]
Gianni Casagrande | Intervista Zero
a cura di Eleonora Angiolini e Laura Vittoria Cherchi