Carlo Spiga – Intervista Zero

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CARLO SPIGA | INTERVISTA ZERO

Parole

…le parole che liberamente affiorano nella mente quando si lavora, e quelle che servirebbero poi a restituirle per iscritto, sono separate da una distanza enorme. Per queste ultime ci vuole sapienza e competenza. Per mia fortuna, alla testardaggine di rendere in forma scritta alcune idee che mi passano per la testa quando mi dedico ai miei lavori, è arrivato in aiuto un amico…
Seguendo quel suo consiglio ho preso le parole che a volte sento girare nel mio studio e nella mia testa – quelle dell’indice di questo libro* – le ho infilzate, e le ho appese. Come carte moschicide. E ho aspettato che qualcosa del pulviscolo vagante nell’aria vi restasse attaccato. Sperando anche che quelle parole, esposte con tanta evidenza, traessero da sé una qualche potenza e, soprattutto, una loro forza magnetica capace di attirare riflessioni, ricordi, dubbi e stupori. E questi, incollandosi alle parole, ripulissero l’aria circostante**

* Vivente; Adornos; Fossi; Tatto; Vista; Ritratto; Grammatica; Attrezzi; Linea; Pittura; Ispirazione; Paesaggio (n.d.r.)
** Tullio Pericoli, “Arte a parte”, Adelphi Edizioni, 2021

Quali sono le parole che affiorano nella tua mente (e nel tuo studio) quando lavori?

routine
ritmo
struttura
trasformazione
connessione
paesaggio
evoluzione
non finito
ibrido

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1 | Qual è l’idea (teorica e/o formale) al centro della tua ricerca artistica?
Nella mia ricerca c’è sempre l’idea di ricreare qualcosa a partire da frammenti eterogenei da mettere poi in connessione. Possono essere frammenti di una canzone, una parola, una melodia o un determinato tono. Possono essere degli oggetti o dei materiali, un paesaggio o un gesto che incontro.

2 | Da quanto tempo lavori con questa idea e perché?
Da sempre credo, sin da che ho ricordo ho avuto interesse nel trasformare quello che mi circondava, nell’inventare una realtà alternativa. Sono sempre stato attratto dagli ibridi, dalle commistioni, soprattutto le più (apparentemente) incongrue. Il perché non saprei davvero dirlo con certezza, c’è qualcosa nel creare forme, suoni o situazioni ibride che mi affascina. Condividerle poi, le rende in qualche modo vere, vitali. Forse quello che cerco nell’arte è questa vitalità.

3 | Il mezzo espressivo e i materiali che utilizzi nella tua ricerca, quali questioni – concettuali e tecniche – ti portano ad affrontare?
Ho sempre amato i materiali di scarto, gli oggetti trovati, e ora che da qualche anno lavoro molto di più con la musica, l’atteggiamento non è cambiato. Mi affascina l’idea di suono “ritrovato” che sia un suono registrato o eseguito dal vivo, ma inteso sempre come un frammento di una totalità perduta. Come scrivevo prima, mi affascinano gli ibridi, forse anche per la mia passione per il fantasy, la fantascienza e i giochi di ruolo… quindi ho sempre avuto la tendenza a immaginare mondi possibili. Questa passione si è poi innestata nel mio interesse per le tradizioni e la musica sarda (ho iniziato come batterista ma mi sono poi avvicinato alle launeddas e al canto gutturale).
Questi interessi incrociati hanno creato un nuovo ibrido, che sono le mie opere, dove oggetti trovati, suoni e parole si incontrano in qualcosa di nuovo, che ha la pretesa di essere plausibile e vivo.
Le mie opere si presentano spesso come uno spazio di riflessione sulle dinamiche che regolano lo stare insieme, le sue implicazioni politiche, filosofiche e sociali, dove si affrontano praticamente diverse questioni legate allo stare assieme.
In questo contesto, utilizzare elementi che vengono dalla tradizione rende la riflessione secondo me più complessa, perché va a interrogare questioni che giacciono più in profondità di altre.

4 | Descrivi il processo di lavoro con cui realizzi le tue opere e l’esperienza da cui ha origine.
Dipende dal progetto, il processo può essere più o meno individuale o collettivo. La mia giornata è scandita da tante routine, legate allo studio di alcuni strumenti musicali, al canto e al disegno. Da questa pratica di studio quasi meditativa nascono la maggior parte delle riflessioni che poi portano alle mie opere. Altre volte invece è nella quotidianità che traggo gli spunti che possono aggregarsi in un’opera, nella giungla caotica di stimoli, dalla relazione diretta con persone o luoghi.
Dalla prima intuizione passo attraverso varie fasi di progettazione in maniera abbastanza lenta, sovrapponendo altre suggestioni, giocando con quella prima idea, scomponendola e rimontandola. Il risultato di questa lenta sedimentazione è un oggetto/idea abbastanza grezzo, non totalmente formato, ma già capace di auto sostenersi e quindi andare ad incontrare il mondo. Da questo punto in poi, l’opera vede la luce e inizia il suo cammino.

5 | Definiresti questo processo un “metodo progettuale”? Perché?
Nel processo che parte dall’idea e conduce alla realizzazione dell’opera, riconosco fasi ricorrenti e una certa persistenza nel tempo. Ripensando alle mie opere, posso intravedere una modalità abbastanza coerente. Direi forse che è un metodo progettuale “poroso”, può cambiare, ma di base rimane quello.

6 | Che importanza riveste la progettualità nel tuo lavoro?
Altissima. Ma è una progettualità espansa appunto, non un progetto in senso stretto, rigido. Il progetto, sia nelle mie opere fisiche, che sonore, prende la forma di una struttura mobile, un canovaccio che mi dà una cornice di azione che poi viene registrata sul supporto che darà forma all’opera.

7 | Che rilevanza hanno, e come influiscono, nella tua produzione, le pratiche di tipo collaborativo?
A questo punto devo aprire un altro capitolo della mia ricerca, che è legato alla mia esperienza con l’associazione Cherimus.
Cherimus è un’associazione di volontariato, un collettivo di artisti e non solo, che ha il suo fulcro e opera prevalentemente nell’area del Sulcis, a Perdaxius. L’associazione si occupa di progetti di arte, ma declinati in forme sempre diverse, perché rispondono a problematiche diverse, quindi possiamo sviluppare progetti legati alla dispersione scolastica, o alla sensibilizzazione ambientale, o alla cooperazione internazionale e all’immigrazione. Il modo in cui sviluppiamo queste tematiche può cambiare, per esempio, abbiamo realizzato quattro cortometraggi girati nelle biblioteche di altrettanti piccoli comuni del Sulcis, oppure abbiamo realizzato quattro giardini pubblici collaborando con amministrazioni, scuole e associazioni dell’iglesiente-cixerri. Tra i progetti fuori dalla Sardegna, la costituzione di due band sardo-senegalesi e la realizzazione di un videoclip nello slum di Kibera, a Nairobi.
Le cosiddette pratiche collaborative sono importantissime nel mio lavoro, e questo lo devo soprattutto a Cherimus. Il lavoro nel territorio, la contrattazione dell’azione artistica con i protagonisti che quel territorio lo vivono quotidianamente, sono stati per me una palestra fondamentale anche per capire meglio il mio lavoro.

8 | Parlaci del momento in cui consideri un’opera o un progetto“finiti”.
Ho qualche difficoltà con l’idea di finitezza. So che prima o poi tutti perdiamo la coscienza di questo mondo, ma il nostro corpo inizia un altro viaggio, diventa qualcos’altro, quindi non finisce proprio nulla. E così concepisco le opere, sempre con un margine di incompiutezza, perché è nella natura delle cose, e non ci possiamo fare nulla. Considero un progetto pronto per vedere la luce quando è abbastanza solido da stare sulle sue gambe e incontrare il mondo, conservando sempre un margine di indeterminatezza.

9 | Qual è l’opera più rappresentativa del tuo percorso artistico? Per quali ragioni?
Makika è sicuramente il progetto che al momento incarna meglio la mia ricerca.
Makika è un progetto contenitore iniziato una decina di anni fa attorno a una chitarra trovata al negozio dell’usato. Insieme a questa vecchia chitarra, che poi ho chiamato Makika in onore di un personaggio del mio paese, ho giocato a inventare una nuova tradizione sonora e visiva che unisse l’immaginario e la musica sarda, il Black Metal norvegese e una buona dose di DIY.
Insieme a Makika ho sviluppato la mia ricerca sul canto gutturale di matrice sardo-asiatica che poi mi ha portato a esibirmi a Kyzyl, nella repubblica siberiana di Tuva.
Ogni esibizione di Makika è l’occasione per me di ridiscutere l’idea di performance e ridisegnare il confine tra la tradizione e la cosiddetta contemporaneità.

10 | Qual è l’opera incompiuta più significativa nel tuo percorso artistico? Che valore ha assunto questa esperienza nella tua ricerca e per il tuo metodo di lavoro?
Come scrivevo prima, concepisco tutte le opere in un certo senso incompiute, l’unico passaggio precedente è la bozza, rappresentata nel mio caso da una cartella dal nome “Limbo” dove tengo tutte le bozze di progetti, appunti, idee alle primissime fasi.
Sfortunatamente l’Hard Disk che contiene la cartella l’ho perso, posizionandole in un vero e proprio limbo!

11 | In che modo la tua produzione artistica si relaziona con il contemporaneo (in termini di idee, linguaggi, metodi, strumenti) e si proietta verso il futuro?
Rifuggo l’idea di un’opera troppo legata all’attualità, ma non posso certo negare che ne sia estranea. Operare nello spazio pubblico implica una maggiore esposizione allo “spirito del tempo” e questo porta a un necessario adattamento in termini di linguaggio, metodo e strumenti. È una strategia di natura prettamente adattativa appunto, che negli anni mi ha portato a mettere in discussione la mia pratica esecutiva. Il punto, secondo me è quello di attraversare la contemporaneità senza rimanerne invischiato, esserne parte integrante, capace di agire al suo interno e influenzarla.
Il futuro non lo sa nessuno, quindi ho deciso di non spaccarmici troppo la testa.

12 | Secondo te, oggi, la creazione/produzione artistica tout court, con quale questione/ problema/ domanda non può fare a meno di confrontarsi?
Credo che ci siano dei punti che ormai sono ineludibili, o che quantomeno lo sono per me. L’impronta ecologica dell’opera, per esempio. Oggi più che mai, è fondamentale pensare a un’opera che abbia il minor impatto ambientale possibile. Lavorando nello spazio pubblico poi, una questione che è sempre più urgente è quella degli equilibri di potere che ci sono tra i vari agenti di un territorio, in questo caso tra l’artista e le comunità che si incontrano. Nella mia ricerca, come in quella di Cherimus, il tema dell’inclusività è una priorità.


Carlo Spiga | Intervista Zero
a cura di Eleonora Angiolini e Laura Vittoria Cherchi