MARCO USELI | INTERVISTA ZERO
Parole
…le parole che liberamente affiorano nella mente quando si lavora, e quelle che servirebbero poi a restituirle per iscritto, sono separate da una distanza enorme. Per queste ultime ci vuole sapienza e competenza. Per mia fortuna, alla testardaggine di rendere in forma scritta alcune idee che mi passano per la testa quando mi dedico ai miei lavori, è arrivato in aiuto un amico…
Seguendo quel suo consiglio ho preso le parole che a volte sento girare nel mio studio e nella mia testa – quelle dell’indice di questo libro* – le ho infilzate, e le ho appese. Come carte moschicide. E ho aspettato che qualcosa del pulviscolo vagante nell’aria vi restasse attaccato. Sperando anche che quelle parole, esposte con tanta evidenza, traessero da sé una qualche potenza e, soprattutto, una loro forza magnetica capace di attirare riflessioni, ricordi, dubbi e stupori. E questi, incollandosi alle parole, ripulissero l’aria circostante**.
* Vivente; Adornos; Fossi; Tatto; Vista; Ritratto; Grammatica; Attrezzi; Linea; Pittura; Ispirazione; Paesaggio (n.d.r.)
** Tullio Pericoli, “Arte a parte”, Adelphi Edizioni, 2021
Quali sono le parole che affiorano nella tua mente (e nel tuo studio) quando lavori?
capire
comunicare
carta
schizzare
progettare
tagliare
ricomporre
studiare
sigaretta
relax
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1 | Qual è l’idea (teorica e/o formale) al centro della tua ricerca artistica?
L’idea che la realtà filtrata dall’essere umano possa assumere forme infinite, per cui cerco di offrire una chiave di lettura inedita su cose ed eventi che siamo abituati a vedere e consumare con lo sguardo. Una sintesi acronica di cose che avvengono nel tempo umano, che è tempo culturale, tempo vissuto, fatto di stratificazioni, ripetizioni, sovrapposizioni e consunzione. Penso l’arte come palestra per la sensibilità individuale e collettiva, uno strumento in grado di migliorare la capacità fisiologica di vedere oltre l’ordinario, per trovare forme fondamentali anche dove regna un disordine apparentemente indipanabile e informe o, al contrario, per trovare la linea aperta alla fuga anche quando ci si trova davanti a una realtà monolitica e molto costretta formalmente.
2 | Da quanto tempo lavori con questa idea e perché?
Da sempre. È legata alla scoperta radicale dell’esistenza della molteplicità e dei differenti modi di essere umani, alla complessità che emerge dalla soggettività. Per certi versi non credo di aver mai avuto alternative, scopri che lo sguardo dell’altro è diverso dal tuo e allora hai bisogno di capire, di mostrare perché ti venga mostrato un modo diverso di vedere, e questa prassi crea dipendenza.
3 | Il mezzo espressivo e i materiali che utilizzi nella tua ricerca, quali questioni – concettuali e tecniche – ti portano ad affrontare?
Innanzitutto, un problema da risolvere, ossia capire se effettivamente si debba o si possa ancora lavorare con i materiali. Penso sempre più spesso che dovrei trovare un mezzo espressivo effimero che non abbia la necessità di svilupparsi con la fisicità della materia, sogno di imparare a suonare il piano. Ma devo anche dire che il lavoro artigianale ripaga, ripulisce e insegna. Il lavoro quotidiano diventa una disciplina e questo aiuta e migliora te stesso e la tua ricerca. Visto da questa prospettiva, quando ti scontri con una materia solida sei tu che diventi concetto.
4 | Descrivi il processo di lavoro con cui realizzi le tue opere e l’esperienza da cui ha origine.
Inizialmente affronto una prima fase di libertà creativa, una seconda di progettazione di piani e percezione per poi passare alla lavorazione concreta dell’opera. Sono un abitudinario, un artigiano. Per prima cosa scaldare le mani, quindi la mattina faccio lavori ludici e manuali, poi metto in moto il cervello e passo la giornata a sviluppare idee e studi. L’origine dei lavori è sempre legata a influenze e piccole intuizioni giornaliere, associate a una ricerca più razionale, a una viscerale necessità di pianificazione.
5 | Definiresti questo processo un “metodo progettuale”? Perché?
Il mio approccio con questo lavoro è tutto progettuale. Adoro progettare il mio spazio di lavoro, il mio tempo quotidiano e, di conseguenza, il mio lavoro artistico. È un riflesso del mio modo di concepire le cose e il tempo, la scansione di un ritmo che ha come effetto l’evolversi delle forme, il concretizzarsi della sostanza in forma di ‘cose fatte’ e l’emergere di nuove idee e nuove cose da fare.
6 | Che importanza riveste la progettualità nel tuo lavoro?
Un’importanza pari o superiore all’istinto e all’intuizione. Si parla sempre di talento e del suo spreco, spesso in persone che non hanno metodo ed energie per svilupparlo. Penso che la capacità di progettare, il rapporto con la committenza e lo scontro con i limiti concreti di un progetto o con gli errori di progettazione, possano esaltare parecchio il genio artistico, aiutarlo a manifestarsi. Il progetto, in sintesi, è sempre un modo di affrontare dei problemi e offrire la propria visione per una loro soluzione.
7 | Che rilevanza hanno, e come influiscono, nella tua produzione, le pratiche di tipo collaborativo?
La collaborazione è fondamento del lavoro progettuale. Progettare vuol dire organizzare tempi, spazi, azioni. In accademia ho imparato che una pratica fondamentale per la produzione di un opera è quella di demandare il lavoro che compete ad altri, in maniera da sviluppare l’opera al massimo del suo potenziale. Da sempre la realizzazione di un opera è l’insieme e l’incontro di diverse figure professionali. L’essere umano da solo non esiste, lo stesso vale per l’artista, per l’artigiano e per il lavoratore in generale.
8 | Parlaci del momento in cui consideri un’opera o un progetto“finiti”.
Vorrei poterlo descrivere come un momento di pace e di respiro, ma la realtà è diversa. È difficile capire quando un opera è finita, accade pochissime volte. Personalmente, mi devo convincere che sia finita, perché anche in quel momento vorrei lavorarci ancora. L’esempio per eccellenza è la pittura ad olio, che con le velature ti permette di passare da uno stato ad un altro in maniera leggera e lenta. È un modo di procedere che, di per sé, genera la curiosità di vedere cosa succede se si va avanti. Il rischio è che diventi un ritmo infinito, un gioco senza tempo. Capire quando un opera è finita è faticoso, la tentazione di rimetterci mano ci sarebbe sempre.
9 | Qual è l’opera più rappresentativa del tuo percorso artistico? Per quali ragioni?
Potrei trovare un’opera rappresentativa di ogni fase del mio percorso artistico, e alla fine probabilmente ci metterei tutte le opere a cui ho lavorato, che posso assicurare sono tante. L’ultimo lavoro in ordine di tempo è sempre il più rappresentativo del punto del percorso in cui mi trovo, e questo mi porterebbe a parlare di un’opera da dodici metri per due, attualmente in mostra a Bollate. È un polittico di 12 monotipi su carta da incisione che riassume la mia lunga collaborazione con Milano Printmakers e con il mio Maestro stampatore Moreno Chiodini. La mostra, curata da Luca Pietro Nicoletti, vede i miei pezzi esposti sulle pareti delle sale di Villa Arconati. È un lavoro che connette il mito di Fetonte con la contemporaneità, dalle reazioni sembrerebbe un’operazione riuscita.
10 | Qual è l’opera incompiuta più significativa nel tuo percorso artistico? Che valore ha assunto questa esperienza nella tua ricerca e per il tuo metodo di lavoro?
L’incompiuta, per ora, è l’opera sul vuoto “Su Boidu” che ho iniziato tre anni fa per un progetto del MAN di Nuoro e che dovrebbe essere sviluppata ulteriormente e mostrata in modo esaustivo. Il progetto iniziale prevedeva un lavoro di studio e riproduzione di uno specifico paesaggio, visto da un luogo a me caro. Ho realizzato dodici incisioni en plain air su matrici pentagonali in plexiglas che costituivano le facce di un dodecaedro regolare. Con l’esplosione di questo solido si aveva la visione completa di ciò che mi circondava in quel punto specifico. Il lavoro è stato il frutto di diverse importanti collaborazioni, a partire dal solito apporto del mio “primo collaboratore” Fabrizio Brotzu, che mi ha aiutato a sviluppare la parte concettuale e quella narrativa del progetto, passando per gli artigiani locali che mi hanno aiutato a realizzare la parte più concreta del progetto, al MAN con la curatela di Micaela Deiana e Compagnia B, a Sardegnageoportale, fino ad arrivare alla catalogazione fotografica fatta da Ivan Bravi. È stata un’esperienza di valore, che mi ha insegnato a sviluppare ogni singolo dettaglio di un progetto ampio, mi ha fatto capire che solo così, attraverso una progettazione rigorosa, si arriva a un buon risultato.
11 | In che modo la tua produzione artistica si relaziona con il contemporaneo (in termini di idee, linguaggi, metodi, strumenti) e si proietta verso il futuro?
In realtà, ultimamente, inizio a nutrire qualche dubbio sulla mia relazione con il contemporaneo. Lavoro in modo eclettico e questo si traduce spesso nell’affrontare temi apparentemente anacronistici o di imprimere svolte formali improvvise, o episodiche. Non mi trovo perfettamente a mio agio con alcune supposte regole auree del contemporaneo ma credo di avere l’elasticità dei miei coetanei, e di poter dire cose significative per un target abbastanza ampio. Negli ultimi anni ho cercato, a volte inconsapevolmente, di produrre opere che sono sintesi acroniche del mio sguardo stratificato sul mondo; e questo spesso mi ha portato a cristallizzare in modo formale cose che saranno semplici e fruibili anche fra parecchio. D’altronde, analizzare, selezionare, semplificare, sintetizzare, sono le basi del lavoro di astrazione che ci rende così familiari gli animali e gli uomini che troviamo sulle pareti di Altamira e Lascaux. Sono azioni che hanno tempi evolutivi lunghissimi e sono ancora futuribili.
12 | Secondo te, oggi, la creazione/produzione artistica tout court, con quale questione/ problema/ domanda non può fare a meno di confrontarsi?
Deve confrontarsi continuamente con il valore dell’opera, dei costi per la sua realizzazione e del suo valore comunicativo. Non parlo, ovviamente, di costi economici ma di costi artistici, culturali. Ogni volta che un artista contemporaneo dice qualcosa producendo un’opera, sta puntando il dito in una direzione e, per forza di cose, sta distogliendo lo sguardo da tantissime altre cose. Questo è un costo artistico e culturale che paghiamo alla struttura interna della contemporaneità. Ci sono state epoche in cui l’artista poteva concepire opere totali, o comunque totalizzanti, abbiamo affreschi che sono sintesi grandiose di periodi vastissimi, statue che rappresentano la somma di tutto ciò che c’è stato prima di loro, opere letterarie che rappresentavano l’insieme di tutte le conoscenze umane fino a un certo punto. Ecco, l’ipertrofia del mondo contemporaneo rende sostanzialmente impossibile creare opere di questo genere. Siamo diventati una specie estremamente dispersiva e questo si traduce in opere che hanno un valore comunicativo che a volte è ritagliato su misura di una comunità, di una nicchia di addetti ai lavori, con riferimenti interni che già all’indomani della loro creazione non hanno più senso. Alla fine dei conti, la domanda da fare a un artista è sempre la stessa, perché produci questo tipo di contenuti? Perché li produci con questi strumenti? Se i nuovi strumenti avranno un’efficacia comparabile a quelli che abbiamo usato finora, ce lo diranno i nostri nipoti, da Marte. Sulla validità dei contenuti poi, la geografia contemporanea ci ricorda sempre più spesso che ci sono luoghi raggiungibili in due ore di aereo che, per certi versi, sono molto più lontani di Marte.
Marco Useli | Intervista Zero
a cura di Eleonora Angiolini e Laura Vittoria Cherchi