STAC!
Di Traverso
Incontrare un artista e il suo studio nelle parole di scrittrici e scrittori.
Con il progetto Di Traverso, STAC! dialoga con la letteratura per portare il racconto dell’arte – e dei suoi protagonisti – nei territori della narrativa. Uno spostamento “di traverso” che, come quando si inclina il capo per scoprire prospettive inedite, sperimenta nuovi orizzonti di visione e di linguaggio e apre dimensioni parallele rispetto all’ambito della curatela e del suo vocabolario.
Nella raccolta di testi presentata, ogni scrittore restituisce l’esperienza vissuta insieme all’artista, cogliendo di quest’ultimo gli aspetti più disparati della personalità, dell’opera o dello spazio di produzione e trasfigurandoli in base alla propria sensibilità, umana e letteraria.
Il risultato è un esperimento che si muove tra generi narrativi molto diversi tra loro e si affida alla forza suscitatrice e immaginativa della letteratura per avvicinare il lettore e allargare l’orizzonte di fruizione dell’arte contemporanea.
Il progetto Di Traverso coinvolgerà, nel tempo, una selezione di autrici e autori invitandoli, via via, all’incontro con gli artisti e le artiste della geografia di studi tracciata da STAC!

Catoi che salì sull'albero

Autoscatto della paladina di Photoshop

Piccolo vocabolario sulla perfezione

Predestinati

Elenco di cose che si trovavano dentro lo studio artistico "Il Deposito" in data 31 agosto 2021
Ignazio Caruso
Di Traverso
Catoi che salì sull’albero.
Le ruspe arrivano una notte d’estate come ne abbiamo viste altre mille qui a Bellòc, imboccano Carrer de la Republica a fari spenti, i motori al minimo, serpenti che strisciano sulle foglie, sulla terra morbida di rugiada, verso la preda. Catoi è sveglio, una lucertola si è infilata sotto le coperte e lui, il lume della candela acceso, le dà la caccia: è l’unico del villaggio cui tocca la disgrazia di sentirli arrivare, insieme a qualche uccello notturno, e questi cantano, ma chi li capisce.
Dalle fessure della persiana Catoi spia le ruspe avanzare tra i vapori, la polvere che non si alza; neri uomini camminano accanto ai cingoli, i loro volti maschere i cui occhi riflettono il buio, come quelli delle mosche, da formichieri i loro musi allungati. Le case spente, mute, la nebbia a riempire gli spazi tra i tetti: gli uomini si guardano intorno e sui loro elmetti lucidi la luna partorisce piccole figlie luminose. Uno di loro si volta verso la finestra di Catoi che da bravo si abbassa prima che l’uomo lo possa vedere, spegne la candela e attende. Cosa sono venuti a fare qui non lo sa, a fare la guerra forse, eppure la maestra dice che la guerra la si fa con i carri armati, non con le ruspe. Si solleva a poco a poco, la sua testa sorge dal davanzale, la fronte, gli occhi, il naso, la bocca, Catoi se la copre con la mano, ingoia l’urlo quando si accorge che l’ultima ruspa è passata e che tutte sono dirette verso la foresta.
Salta giù dal letto ancora avvolto nella coperta, il pigiama comodo, i piedi dentro ai sandali, passi da topo per non svegliare la madre che poi chi la sente, vieni qui, non andare ti ho detto, non farmelo ripetere: ecco la sua stanza, la porta è aperta, dorme sempre nella stessa metà del letto. Catoi entra, afferra il coltello del padre, se lo infila nella tasca del pigiama e corre via di casa: chissà perché la nebbia sa di bruciato. Insegue le ruspe, si mantiene a dieci passi di distanza, chi può accorgersi di lui? si nasconde come fanno gli animali del bosco. Ecco la casa di Ramòn il fabbro, ed ecco quella di Llissa: vuol dire che il paese è finito, adesso si imbocca il sentiero che sale per la foresta: questo fanno le ruspe.
Catoi si infila nella bardissa, se non si percorre il sentiero ma ci si inoltra nella macchia si arriva prima alla foresta, l’ha fatto tante volte insieme a Pau perché la caccia ai lombrichi è meglio della scuola. Gli spini, i rovi, le more, le pietre, quelle che stanno ferme e quelle che ballano, dove si scivola per il muschio e dove no, le tane delle volpi, i piccoli crateri scavati dai cinghiali, impellicciati cercatori di tesori, Catoi sa e conosce tutto: la foresta è davanti ai suoi occhi quando i fari delle ruspe sono ancora lontani, i motori echi di caverna. Catoi trova riparo dietro il tronco di un leccio: un bagliore bianco, di polvere, riscalda l’aria e distende sul terriccio le lunghe ombre degli alberi; la rugiada evapora, la terra si asciuga: così l’incantesimo della notte finisce e arriva l’alba. Catoi, il coltello in tasca, stringe a sé la coperta: l’ultimo abbraccio a un amico prima di dirsi addio.
Ecco le ruspe. Catoi siede alla base del leccio, poltrona scomoda quel legno eppure resta immobile, lo si potrebbe scambiare per una radice, ascolta i rumori alle sue spalle, i motori che si spengono, e le voci: è un lavoro di una giornata, finiremo entro il tramonto, questa notte sarete a casa dalle vostre mogli, cominceremo da qui. Dunque la guerra si può fare anche con le ruspe.
Sarebbe dovuto tornare qui a Bellòc, avrebbe dovuto avvisarci, saremmo potuti andare con lui, e invece Catoi si alza, ripiega la coperta e, stretti i pugni, corre dritto verso il centro della foresta: è lì che sta il suo albero, il leccio più alto e grosso di tutti. Senza neanche riprendere fiato Catoi scioglie il nodo della corda, la scaletta si srotola lungo il tronco, ne afferra le estremità e mette il piede sul primo asse di legno. Sale Catoi, e quando arriva al principio della scala, circa a metà dell’albero, la riavvolge e la fissa bene al tronco, quindi ricomincia ad arrampicarsi, questa volta aggrappandosi ai rami, che intanto si sono fatti più fitti e agevoli.
Dalla cima dell’albero Catoi riesce a vedere la foresta tutta, il sole già illumina ogni passo di terra, le teste degli alberi uno accanto all’altro sono un prato verde che arriva fino all’orizzonte, Catoi ha visto qualcosa di simile quando don Arnau l’ha portato in cima al campanile una domenica mattina e la piazza era piena di uomini e donne e gli uomini si erano tolti i cappelli e le donne avevano sciolto i loro fazzoletti.
Quando il primo albero viene abbattuto, Catoi non ne può sentire il rumore: questo deve farvi figurare quanto al tempo fosse estesa la foresta. Cade un albero, poi quello al suo fianco, e quello al suo fianco ancora, amici ubriachi che si reggevano l’uno all’altro da che si ha memoria del mondo. Catoi si aggrappa forte ai rami: sa che entro il tramonto arriveranno da lui e abbatteranno il suo albero e mentre è preso da questi pensieri di tragedia, un grido: Catoi!, chiama, sei lassù?
La voce risale dalle radici: Catoi scende dai rami più alti finché non riesce a scorgere la base del tronco. Lo riconosce subito: è Pau, anche lui deve aver saltato la scuola. Vogliono distruggere la foresta, dice Catoi, con una mano si aggrappa a un ramo e con l’altra disegna una conchiglia accanto alla bocca per farsi sentire, la distruggeranno entro il tramonto! Il volto di Pau rimane fermo, come se le parole dell’amico fossero grida sottomarine chiuse in piccole bolle d’aria. Queste sono cose da grandi, dice, e si china a raccogliere un ramoscello da terra. La foresta! grida ancora Catoi, distruggeranno la foresta! Pau osserva il suo rametto, ne è particolarmente fiero, poi leva lo sguardo verso l’amico: cose da grandi, dice. Io vado a caccia di lombrichi. Dove vai? urla Catoi, ma quello ha già voltato le spalle ed è sparito nel buio della foresta.
Quando Catoi si riaffaccia dalla cima dell’albero, le prime schiere di lecci sono cadute e giacciono sull’erba, mentre le ruspe continuano operose il loro lavoro. Il sole è salito ancora nel cielo e le ombre degli alberi si accorciano, ritornano ai tronchi. Facile prendersela con chi non si può difendere, Catoi stringe il coltello dentro al pugno.
Ehi, Catoi! Una voce di ragazza lo chiama ora dal bosco. Catoi! Eccolo scendere ancora lungo i rami finché la sagoma di femmina non compare ai suoi occhi. Vieni con me, Catoi, dice. Porta la mano verso il petto, come a tirare una corda trasparente. Chi sei? chiede Catoi (si accorge che la sua voce è mutata, come provenisse ora dalla cavità di una roccia). Non mi riconosci? dice quella. Catoi osserva la ragazza, pare più grande di lui di qualche anno, eppure ha un’aria familiare, se ne sente come innamorato. Chi sei? chiede. Sono Llissa! risponde quella, mi hai già dimenticata? Dimenticata Llissa? Impossibile, chi se la dimentica Llissa, ma adesso c’è da fare la guardia all’albero, c’è da stare qui. Vieni con me, andiamo giù al fiume, fa così caldo oggi. Oh no, Llissa, come potrei, io ho da stare qui, tu comincia ad andare, ti raggiungerò quando avrò finito, aspettami, e mentre Catoi pronuncia queste parole la femmina è già svanita, inghiottita dalle foglie.
Catoi avverte ora un prurito sulle guance, lungo il collo, un formicaio che si libera sul suo volto, prende a schiaffeggiarsi per scacciar via gli insetti e subito si accorge di essere ricoperto da una peluria molle, acerba; vagabonda per i rami, ci fosse una pozzanghera, anche uno sputo di rugiada tramandata dalla notte ed eccola lì, raccolta nella cavità d’un ramo, Catoi ci si avvicina e il suo volto compare riflesso nell’acqua: così si accorge che quello non è più lui ed è ancora lui, e che quella peluria altro non è che erba fresca di campo. Afferrato il coltello comincia a radersi, la lama si tinge subito di rosso, lava via il sangue nell’acqua e ora tutto il suo volto riflesso è una maschera di dolore. Quando l’erba cade dalle sue guance diventa subito gialla come quella d’agosto. Catoi la butta via giù dall’albero.
Quando torna sulla cima s’accorge che le ruspe hanno abbattuto ormai metà della foresta, e mentre si siede sul ramo più alto avverte una stretta lungo la coscia e poi uno strappo: è il pigiama che ancora indossa a essersi ristretto oppure (questo di certo è impossibile) è lui a essere cresciuto? Ma no, dev’essere stato un qualche rametto a tirar via un lembo di tessuto. Si rannicchia portando le ginocchia al petto: il rumore dei motori adesso somiglia allo scorrere del fiume; s’è alzato anche il vento, porta al suo naso sapori di nafta ed erba tagliata. Può chiaramente vedere il lavorio delle macchine e degli uomini con le maschere. In una giornata normale, adesso sarebbe in cucina a prendere il tè con la madre.
Percorre con lo sguardo il perimetro della foresta, supera il sentiero e si inoltra nella macchia, quasi gli fosse concesso, almeno con gli occhi, il ritorno. Lì, tra i ginepri, si disegna una sagoma: avanza lenta, zoppa, aggrappata a un bastone, i passi minuscoli senza però mai cedere; si dirige verso la foresta, come attirata dal suo albero; quindi, poco prima di inoltrarsi tra i lecci, in un piccolo pianoro a pochi passi dalle ruspe, si ferma: Catoi, dice, scendi giù. I capelli lunghi e grigi, alghe morte. Adesso basta, è ora di tornare. Il volto crepato dalle rughe come la terra d’agosto. Catoi, non te lo ripeto due volte: non farmi venire lì. La sagoma della vecchia è ancora lontana, ma quella voce riecheggia come fosse alle sue spalle, nascosta tra le foglie dell’albero.
Catoi salta in piedi come morso da un ragno, e il dolore che sente lungo la schiena è nuovo e antico allo stesso tempo. Nello scendere fino al punto del tronco in cui la scaletta è fissata, Catoi sente le ginocchia cedere, e un male frenarlo a ogni balzo. Quindi afferra il coltello, tende le corde e zac, prima una e poi l’altra, due belle sciabolate e la scaletta vola giù dal tronco, che un uomo aggrappato fino all’ultimo sull’orlo di un precipizio non cade diversamente. Così adesso nessuno potrà salire.
Ho bisogno di te, Catoi, ho bisogno di te. Scendi, basta così. La vecchia è adesso alla base del tronco, ha gettato il bastone a terra e raschia le mani rugose sulla corteccia. Catoi si afferra la testa con le mani, questo certo non è possibile, e quando le lascia andare lungo i fianchi vede planare davanti ai suoi occhi cumuli di foglie gialle e arancioni (ma le foglie del leccio sono verdi anche in autunno). Vieni con me, ti prego, ho bisogno di aiuto, mi vedi? Mi sei rimasto solo tu. Catoi si guarda le mani e giurerebbe di vederle ricoperte di corteccia. Non posso, mamma, devo restare qui. Ormai non posso più scendere.
Oh, Catoi, se solo fossimo stati svegli anche noi. Se solo avessimo avuto anche noi questo privilegio. Non saresti stato solo.
Catoi risale a fatica in cima all’albero, ogni balzo di ramo in ramo è una conquista e costa mille dolori. Quando riesce a mettere la testa fuori dalle fronde il cielo è rosso e il sole cade a occidente. I motori delle ruspe pietrificano l’aria e le voci degli uomini si odono appena. Gli uccelli sono già tutti scappati. A circondare il suo tronco non è rimasto che un pugno di alberi, gli ultimi soldati a difendere il castello. Catoi afferra il coltello, lo agita verso il cielo, e quando sta per cacciare un urlo contro le ruspe e contro gli uomini e contro gli spettri proprio non gli riesce di aprire la bocca, le labbra non possono più separarsi, incollate un lembo all’altro come una mano gli stringesse il muso, proprio come aveva fatto, da sé, quella mattina. Con le ultime forze rimaste porta il coltello verso il suo volto, le braccia ormai incastrate nella corteccia, la lama penetra lenta nella sua bocca e a fatica recide i filamenti vegetali che trattengono le labbra. Non è il sapore ferroso del sangue a invadere la sua bocca, ma il verde fresco di una linfa.
Ecco un albero cadere alla sua destra, eccone un altro rovesciarsi alla sua sinistra: Catoi agita gli occhi da ogni parte, pare un cieco, immobile ormai il suo collo, lignificati i suoi muscoli. Le ruspe e gli uomini qua sotto. Tutto intorno, un cimitero di cadaveri. Fossero stati di carne, gli uccelli non sarebbero scappati.
È quasi notte quando dal sentiero viene fuori un carretto, a trainarlo due vecchi ronzini smagriti, chissà come stanno in piedi, paiono prosciugati, già messi sotto sale a essiccare. Sugli assi anteriori, briglie in mano, è seduto un uomo, la tesa del cappello ne tace il volto. Le ruote del carretto rotolano tra gli spazi vuoti lasciati dagli alberi, mentre le ruspe avanzano come se non lo vedessero. Solo adesso Catoi riesce a scorgerne il carico: sotto a un mazzo di fiori appassiti, sta una bara. Il ramo di Catoi si apre, il coltello del padre cade nel vuoto, tintinna sull’erba. L’uomo tira le briglie a sé, fermandosi a pochi passi dall’albero; quindi, sceso dal carro, si avvicina al tronco, scuotendo la testa; si china, raccoglie il coltello e se lo infila in tasca. Ritorna verso carro.
Perché, figlio mio? chiede. L’uomo, ancora in piedi, si toglie il cappello. Perché sei salito lassù?
Poi, quella che all’inizio del giorno era la bocca di un bambino di nome Catoi, in uno spasmo, stride legnose le sue ultime parole:
Io non ricordo.
L’uomo striglia i ronzini e il carretto riparte, svanendo tra le ruspe. Gli occhi dell’albero secernono gocce dolci di resina quando vedono una lucertola infilirarsi tra le sue radici; e mentre i lumi di Bellòc si accedono, non gli resta che domandarsi chi fosse quell’uomo e cosa volesse da lui, un semplice albero.
In molti, ancora oggi, sostengono che Catoi non sia davvero l’albero che abbiamo davanti e che questa sia solo una sua opera intagliata sul ramo più alto con nobile maestria ed elevatissima arte, ma a noi questo non interessa né importa: ciò che conta è che grazie a lui le ruspe, vista questa creatura che pare viva e minacciosa per chiunque, forse anche per gli dèi, siano tornate da dove sono venute. Perché è così che noi abbiamo smesso di dormire; perché è così che noi oggi possiamo festeggiare, con maggior vigore e sempre più indomabile orgoglio, il nostro cinquantesimo anno di vita sugli alberi.

Ignazio Caruso
Nato a Catania, vive ad Alghero, in Sardegna.
Insegna Lettere nelle scuole superiori, si occupa di letteratura e arte, collabora con festival letterari (Gavoi – L’isola delle storie, Entula, Dall’altra parte del mare, Florinas in Giallo), scrive su riviste (Sardinia Post Magazine, Lollove Mag) e lit-blog (Il Rifugio dell’Ircocervo).
Un suo racconto è stato selezionato per il Premio Treccani, altri sono stati pubblicati su quotidiani e antologie. Il suo romanzo d’esordio uscirà nel 2022 per Giulio Perrone Editore.
Giovanni Gusai
Di Traverso
Predestinati.
Ci siamo messi in cammino che non avevamo sentieri, attorno c’erano campi fioriti e nebbie, la nostra gente non aveva più un nome, e se avesse potuto sceglierne uno, quello sarebbe stato Aurora. Da tempo eravamo stanchi della noia che la bellezza era capace di procurare. Tutto era bello, ogni scorcio magnifico, panorami mozzafiato, viste spettacolari, e ogni altro tripudio di frasi fatte buone per convincere qualcuno di vivere nel posto perfetto. Quando si perde la consapevolezza dell’orrore, significa che l’orrore ha prevalso sul resto: la bellezza è tutto, allora la bellezza è sconfitta – confusa. Ma l’orrore lo vedi nelle piccole cose, e tra noi molte famiglie avevano dimenticato come spezzare il pane, come conservare le braci, come aspettare. Quindi abbiamo cominciato a piegare gli indumenti pesanti e impacchettarli, recuperare i coltelli e le funi, fabbricare le candele. Cercavamo le grotte. Nel buio sai mai cosa trovi, e frastornati com’eravamo, coltivavamo forse in noi l’illusione di affrontarlo per uscirne illuminati. Ci siamo lasciati alle spalle dispense piene, letti sfatti. Siamo andati via senza badare al passato. Non sapevamo se l’orrore ci avrebbe seguito.
La massa sospesa è un fiammifero la capocchia di un fiammifero la forma scura e ruvida dello zolfanello prima che lo sfreghi e quando è incandescente poi fa fuoco e la massa immersa nell’aria è quella roba là, galleggia e non so se la sto osservando o è lei che ha imparato a scavarmi dentro e fino a un secondo fa vi giuro io l’ho vista qua c’era una città con i semafori lo zoo le persone a fiotti che attraversavano sull’asfalto il camion dei pompieri le sirene delle ambulanze i palazzi di vetro e ora bang non c’è più nulla e quello che vedo sono macerie e mi accecano io stavo solo camminando e cercavo pace e ora questa capocchia di zolfanello pronta a bruciare si è rubata i colori ed è rimasta solo lei che è come un fiammifero sul punto di divampare e portarsi via il mondo e di sicuro si è presa i colori e qui è tutto bianco e nero cosa ci faccio nudo qui mi sembra di non poter fare altro che camminare e adesso comincia a piovere e farà di questi resti fango, sarà un pantano annasperò dovrò fermarmi non so se oltre lo spettro infinito del cielo ci sarà una voce a dirmi Vieni avanti oppure Fermati e io solo quello stavo aspettando di sapere, se scomparire del tutto o diventare Dio c’è la testa di un cerino spento che temo tra poco esploda o imploda o muoia o mi uccida bruciandomi oppure sono morto già.
Nessuno tra noi aveva memoria di una destinazione. A nessuno importava di fare il condottiero. Per questo abbiamo lasciato che la forma della terra ci suggerisse dove passare. Ricordiamo di esserci fermati spesso a osservare. Sembrava di ritrovare una forma di contemplazione andata perduta. Il mare cantava perché imparassimo la forma delle onde, e noi lo ascoltavamo immobili. Eravamo una carovana di naufraghi senza il peso della disperazione, migliaia di migliaia di orme sulla battigia umida, un solco profondo nell’erba alta delle colline, miliardi di strepiti sui sentieri rocciosi coperti di sassi aguzzi. Avevamo già disimparato la fatica della speranza, coltivavamo lo stupore della scoperta. Preferivamo muoverci durante l’alba e al tramonto, mai oltre le Effemeridi. Era una questione cromatica. Stavamo meglio con quella luce là, che non si sa accontentare di una forma sola, e curva oltre il mondo strabordando nelle sue forme riconoscibili e sempre diverse, come fuoco liquido rovesciato da una grossa pentola sui pianori e sull’acqua e sulle cime. Rincorrevamo le pance piene delle nuvole, le ombre che maculavano la terra, la spinta del vento. Abbiamo ricominciato a spezzare il pane quando ci ha raggiunto l’inverno. Nessuno aveva ancora ripreso a parlare. Eravamo tanto lontani da casa, e non avevamo mai proferito parola. Avevamo deciso di partire nel silenzio e quel silenzio aveva camminato con noi. Era passato tanto tempo, prima che ce ne accorgessimo. È accaduto nel giorno in cui abbiamo visto quell’uomo solo, piangere muto anche lui, solo come un albero al centro di un lago.
Grigio è una parola sbagliata per dire il colore di questa terra che ha impolverato il cielo sembra che abbiano scosso una tovaglia dentro una falegnameria e ora è tutto segatura briciole e resti di un pasto a fluttuare in una nebbia lattiginosa e nascosto nel cuore di questo tutto che sembra nulla ci sono graffi dell’umanità e posso giurare sul seno di mia madre mi cadano le mani se non è vero che c’era un’umanità prima di questo vuoto e io ne facevo parte o almeno la osservavo da molto vicino e ora questi graffi su questa pietra in questo grigiore anche se grigiore non è la parola giusta mi sembrano le ultime volontà di umani senza età che chiedono di smettere non so bene di fare cosa chiedono di smettere e basta di essere umani forse e vogliono tornare ad avere un nome uno solo o di parlare con la vetta della montagna e magari questa dannata benedetta crudele santa massa di non so che materiale sia forse grafene non so neanche che forma abbia il grafene mi sa che intendevo grafite chissà se sono la stessa cosa, ecco questa massa che mi sembrava stesse per esplodere fino a un attimo fa adesso la vedo meglio ed è una striatura continua sembra l’accumulo delle violenze della storia la Storia con la esse maiuscola e ne faccio parte pure io e credo mi stia giudicando e mi chiama per nome beata lei che il mio nome se lo ricorda io che stavo camminando in mezzo alla gente fino a pochissimo fa quando c’era la città con l’umanità e in mezzo c’ero io ecco cosa volevo era il mio nome e che nessuno potesse mai dimenticarmi e ora invece la vetta della montagna è qui stai a vedere e mi osserva pure se a me di parlarle me ne fregava niente prima e adesso penso mi dovrebbe fare paura ma come fai ad avere paura così come me, come se mi avessero strappato i sogni dagli occhi e ora guardassi oltre il velo dov’è che la trovi una paura peggiore della consapevolezza?
Procediamo nel nostro silenzio fino a poter contare le vertebre della sua schiena. Qualcuno tra noi aveva costruito o raccattato bastoni da cammino con i quali sorreggersi, e tutti avevamo una bisaccia pesante. Sembravamo cacciatori della preistoria in attesa che la preda finisca di dimenarsi, e l’uomo nudo e disperato era l’oggetto della cacciagione. Aveva lo sguardo piantato nel cuore del cielo e qualcosa lo turbava al punto da farlo tremare in modi con i quali, diceva la sua noncuranza, aveva già imparato a convivere. Non avevamo ancora i mezzi per comprendere cosa ci fosse, in quel campo brullo di erbe spontanee, a incutergli tanto terrore. Se fosse il giallo sbiadito dell’avena selvatica, l’odore dell’assenzio, le punteggiature della malva e del papavero, le spine del rovo, gli strappi dei cirri oltre l’orizzonte, i graniti sberciati, le grida dei falchi. Quando abbiamo iniziato a chiederci se fosse il caso di interrogarlo: quello fu il momento in cui abbiamo davvero sentito il bisogno di parlare, dopo tanto. Poi una tra noi ha teso il suo bastone e l’ha puntato verso il fianco dell’uomo.
È una fatica questa è un supplizio tenere insieme il bene che sai immaginare e il male che hai subìto la cosa che puoi diventare quando impari a sovrapporre il male e il bene tuoi e il bene e il male altrui e il passato e il presente che poi si può chiamare futuro ed è lo stesso tutto questo mi dice lo spettro del mondo che ho davanti ai miei occhi bianchi e sento ora come se potrebbe succedermi di tutto ora che sono il resto del mio passato e delle forme di umanità che avevano costruito anche per me e io ci abitavo ed erano la commistione di tutti i comportamenti i silenzi le emozioni la leggerezza il peso insostenibile della vita insieme che ora si è sfracellata ed è ridotta in cumuli di lerciume e non vedo altro se non un dubbio atroce e la consapevolezza radicale di essere divenuto vulnerabile io che ero come tutti gli altri e camminavo in attesa che trovassero una cura per tutto e mi sentivo lontanissimo dall’essere un animale anzi ero più simile a Dio non so com’è accaduto che ad un certo punto ero in ginocchio sulle mie certezze a ripensare perché e in che modo ed ero un prigioniero sul fondo di un pozzo asciutto e in alto c’era la luna ma aveva smesso di essere un corpo celeste ed era solo pietra polverosa però forse ora dentro il pozzo c’è qualcun altro lo vedo con gli occhi della nuca quelli che sentono le cose anziché guardarle.
Poi una tra noi ha teso il suo bastone e l’ha puntato verso il fianco dell’uomo, e gli ha sfiorato una costola. È scattato per voltarsi, tutti l’abbiamo guardato. Era cieco. Spalancava la bocca per urlare ma qualcosa gli si era spezzata in gola e non uscivano che schizzi di saliva e lacrime. I nostri bambini si aggrappavano alle vesti degli adulti. Probabilmente avevano capito quello che diceva. L’orrore ci aveva seguito, e ora si diffondeva come un brivido collettivo. Ha iniziato a piovere. La terra bagnata ha amplificato gli odori. La donna che aveva teso il bastone l’ha ritratto, e l’uomo ha parlato.
La paura è una cosa l’angoscia è un’altra il terrore ti bracca il panico ti soffoca lo spavento è un attimo il dubbio è tutta la vita l’ansia ti aspetta sulle fobie si fondano le decisioni e a questa gente semplice non ne manca nessuna mi fanno tanta tenerezza da confonderla in pena chissà cosa cercano quasi quasi glielo chiedo anche se mi prenderanno per un folle sconfitto, è questo che sembro lo so invece cerco solo di ricordare ora glielo chiedo a cosa ambiscono cosa vogliono e
«Dove andate?»
Abbiamo taciuto a lungo, mentre immaginavamo i paesaggi che speravamo ci aspettassero: antri, spelonche, conche, rocce cave, carsismi, meandri, fondi di lago, grotte. Pensavamo potessero diventare una risposta. Quello che cercavamo era forse un modo di sentirci al sicuro, un luogo in cui dover ricominciare la bellezza daccapo. E abbiamo risposto
«Lontano abbastanza da poter stare da soli e riprendere a parlare.»
Tutti eravamo fradici, ma ci badavamo soltanto noi. Lui sorrideva, o qualcosa del genere.
Ecco facciamo la stessa cosa io e loro non sappiamo accontentarci di quello che è come lo vediamo di quello che era come lo ricordiamo di quello che sarà come ce lo progettano siamo tutti la furia delle mani la violenza dei cuori pure se loro camminano insieme mentre io sto immobile e trafitto senza rassegnarci alla bellezza e basta purché sia bellezza siamo le anime inquiete questa massa scura che incombe sul mio cranio l’odore della fatica che si portano appresso sono lo stesso dolore la stessa rassegnazione lo stesso gesto della stessa mente della stessa creazione contro chi ha sgretolato il posto da cui provengo e ora non riesco a vedere altro contro il villaggio vuoto dal quale arrivano loro siamo la paura dell’inadeguato la cognizione del potere l’immaginario senza tempo l’inchiostro sulle mani le sopracciglia bruciate dal fuoco i calli sul fondo dei piedi le rughe attorno agli occhi siamo soggiacere al cospetto della natura combattere per una certa parte di umanità odiarne il resto fare di tutto perché nessuno ci dimentichi perché nessuno ci dimentichi perché nessuno ci dimentichi perché nessuno ci dimentichi perché nessuno ci dimentichi perché nessuno ci dimentichi perché nessuno.
L’abbiamo lasciato a balbettare parole incomprensibili rivolto verso l’alto, verso di noi o verso chissà cosa. Abbiamo camminato ancora, e oltre la pioggia c’erano le grotte che cercavamo. L’incontro con il matto ci aveva insegnato a parlare, quindi abbiamo potuto dire
«Siamo arrivati.»

Giovanni Gusai
Nato a Nùoro nel 1987, legge, scrive e vive in Sardegna.
Un suo racconto breve, Metallo pesante, ha vinto il premio Giulio Angioni.
Come in cielo, così in mare (SEM, 2021) è il suo primo romanzo.
Vuoto
Di Traverso
Mauro Tetti
Di Traverso
Elenco di cose che si trovavano dentro lo studio artistico Il Deposito in data 31 agosto 2021.
-N°1 Disinfettante mani all’ingresso, aroma mirto.
-N°1 logo
-N° 3 o 4 librerie bianche materiale legnoso + tavolo nero centrale grande 170 x 275.
-N° 1 fotocopiatrice Xerox + due Risograph con adesivo This Riso kills Fascists
-N°1 Ciclostile GEHA che non so cos’è guardo su google: “Duplicatore per la riproduzione di un limitato numero di copie mediante una matrice di carta paraffinata, sulla quale il testo è stato dattiloscritto o trasferito elettronicamente”. Ah Ciclostile, lo sapevo.
-N° 1 manichino legno con tacchi e maschera da lottatore messicano.
-N°1 testa di manichino con occhiali verdi e cappello rosso con scritta Make america great again.
-N° 1 cassa Agristel con 15 pacchi di carta fotografica ILFORD.
-N° 1 Atlante di GINNASTICA, Giunti Marzocco Editore, anno 1968. Apro pagina a caso e al capitolo 8 Serie A ci sono gli esercizi di Prolungamento della gioventù.
-N°2 vasetti Aloe vera (vera).
-N°1 Torchio calcografico + rulli + tarlatana + racle.
-N°1 Antropologa cartomante fotografa visionaria (canottiera nera, pantalone verde, sandali) si chiama Laura Farneti alias Miss Merletti quando nottetempo mette musica nella mitica Radio Furgoncino.
-N°1 Libello progetto artistico Arc Larue.
-N°3 ventilatori accesi marca Equation, Tenko.
-N°1 tagliarisme con adesivo scritta MARIA LIE
-N°1 volume opera omnia LENIN, Editori Riuniti
-N°4 serie girevoli + sgabelli + piano di lavoro con ruote e cassetti, nei cassetti opere di pittura varie.
-N°1 frigo Ariston con dentro niente.
-N° 1 volume the complete works of Marcel Duchamp + Giorgio De Chirico, Disegno + Gianni Brusamolino, Una scultura e altro + 1 volume David Hockney, Portaits + ART at the tourn of the MILLENNIUM + 1 volume GIOVANNI COLUMBU, La pittura come profezia + The lazlo READER, the art of remaking, Second Chances + The Inside-out Viggiano-Franchini e il laboratorio 2005/2006 (Accademia delle belle arti di Firenze) + 1 volume Musica elettronica e sound design + 1 volume diritto costituzionale + numero incalcolabile di riviste e albi: tra i tanti L’OFFICE ITALIA N°15 Febbraio 2016, 5 Euro, Stampato in U.E. + Cipessa Prin Foular e fantasie di ricerca Collezione primavera estate + 1 numero speciale SEMPE’ 100 Dessing pour la liberté de la presse + catalogo 2020 Fruit of the Loom + rivista fotografica FUORITEMA, anno 2005, dietro c’è scritto “Si mente il meno possibile soltanto se si mente il meno possibile, non se si ha il minimo possibile di occasioni per farlo.
-N° 1 disco Zecchino d’oro 1968, tra le tracce indimenticabile Il valzer del moscherino.
-N°1 blatta attaccata a scotch, morta nella polvere.
-N°1 Guida Michelin ITALIA anno 1989
-N°1 artista, stampatore, maestro d’incisione, serigrafo, rilegatore, risolutore di problemi, si chiama Alberto Marci (scarpe nere, bermuda verde, camicia disegnini).
-N°1 opera batacchio da gong, “picchiami”.
-N° 1 essicatoio.
-N°1 carosello.
-N°1 ingranditore fotografico.
-N° 1 monografia MAGRITTE + il diario di Frida Kalho + Circus Life Gianluigi Di Napoli + FOTOGRAFIA secondo volume + Lucia Baldini Buenos Aires Café + Frida Kalho, biografia per immagini + Monografia HOPPER + Camera Work, the complete photographs + Keim, breve storia della fotografia + Barthes, la camera chiara+ DESIGN Museum + Dalì, Il triangolo dell’empordà + monografia MAN RAY + Anatomia dei sentimenti, guida illustrata alle relazioni amorose, Giulia Maria Falzea, Claudia Gori + Come diventare un esploratore del mondo, Keri Smith + CARTE SEGRETE, il manuale degli Hippies, aprile giugno 1968.
-N° 1 docente IED e libero professionista nel campo delle tecnologie applicate all’arte, al design e all’architettura, si chiama Marcello (non presente).
-N°1 piedistallo reggi ventilatore artigianale.
-N°3 bidoni con scritto: carta!, secco! Plashtica!
-N° 4 magliette in vetrina con scritte: BVRRICCA, HOME IS WHERE TINDER WORKS, Unemployed, r/wcgw
-N°1 phon piccolo marca Kaisilu (cina).
-N°1 altro bidone con scritto carta!
-N°3 bottiglie per prova etichette con vino finto.
-N°1 volume Architecture now! + Monografia Robert Doisneu + Benjamin, l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica + Vaccari, fotografia e inconscio tecnologico + monografia Watteau + Man Ray, Sulla fotografia + Pino Bertelli, Contro la fotografia + Modotti, Vita, arte e rivoluzione + Nadar, Quando ero fotografo.
-N° 1 designer, illustratrice e maestra, si chiama Maria Tedde. (non presente).
-N° 1 quadernino con appunti per clarinetto.
-N° 2 multiprese elettriche (una grande).
-N°1 tavolo in vetro con disegni e cartello: NON METTERE PESO VETRO ROTTO!
-N°1 manifesto gigante di odontoiatria e altri organi.
-N°7 pinzatrici + 2896 fermagli per fogli + 16 penne cancellabili + 64 matite varie + matite colorate + colla vinilica, a contatto in barattolo o tubetto, per carta, liquida, in pasta, stick, semisolida, cianoacrilica + 41 tra righe righelli squadre squadrette di legno plastica o materiale ferroso + 22 rotoli nastri adesivi gommati, scotch, biadesivi, ti tela, di carta, da imballo + gessetti e cancellino + altre matite colorate + forbici + 16 gomme + pennarelli colorati + garze, fili, lenze, tessuti + origami in vetrina.
-N°1 casse musica con brani di Lu Colombo.
-N° 2 MacBook, uno in videochiamata da Singapore con Luca De Melis fotografo e collezionista d’arte (saluta) + macchina fotografica NIKKORMAT.
-N° 1 distruggi documenti elettrico Amazon Basics + altra ciabatta multiprese elettrica nascosta.
-N° 143 barattoli di liquidi chimici e colori, tinte, alcol, no alcol, diluenti, e “Dio solo sa cosa”.
-N° 1 vaschetta Naturella formaggio di capra spalmabile light con dentro “Dio solo sa cosa”.
-N°1 volume Uffizi Firenze + I grandi fotografi + Collana Oliviero Toscani, lezioni di fotografia + Sistema zonale dall’analogico al digitale + FRANCESCA WOODMAN + Fotografia Digitale + Fergus Green, l’arte del ritratto + Bauhaus archiv BAUHAUS Magdalena Droste.
-N°1 condizionatore Delonghi.

Mauro Tetti
Nasce nel 1986 a Oristano, è laureato in lettere moderne.
Nel 2010 la compagnia Riverrun di Cagliari porta in scena il monologo teatrale Adynaton. A pietre rovesciate (2016) è il suo primo romanzo, pubblicato nella collana di narrativa Tunué diretta da Vanni Santoni. Ha collaborato alla realizzazione delle guide Nonturismo pubblicate da Ediciclo Editore. Altri racconti sono pubblicati su Sardinia Post Magazine, Minima&Moralia, Terra Nullius, L’inquieto, Nazione Indiana.
Ilenia Zedda
Di Traverso
Piccolo vocabolario sulla perfezione.
Ultimamente, vista la mia condizione di confusione – che dico – di chiusura totale, ho iniziato a capire il perché di tantissime cose della mia esistenza. E siccome sono una donna metodica, che deve tenere insieme un sacco di significati per coprire di cenere ogni suo straordinario segreto (sì, son tutti straordinari, che ci crediate o meno), sono qui ad appuntarmi e a consegnarvi le parole che ho scelto per vivere meglio in questa Terra. Quelle che mi fanno sentire florida e bellissima e pronta per un interminabile momento tra moquette e margaritas.
Per ringraziarmi avrò tempo.
Tutto quello che resta tra me e l’inevitabile.
Giudicate voi questo mio piccolo vocabolario sul senso delle cose, sulla malizia, sulla perfezione. E, perché no, su ciò che di più oscuro possa mai capitarci.
Questa è la mia mappa di parole per non perdermi. A richiesta sono disponibile anche a farvele avere a domicilio queste piccole sincere bussole vitali, personalizzate, ça va sans dire.
Giudicate voi se servono per orientarvi.
Io, modestamente, ne sono sicura.
ombra /óm·bra/
sostantivo femminile
Ciò che risulta, più o meno intensamente, da un corpo animato e inanimato esposto a una luce. Ciò in cui vuoi stare per non destare sospetti e anche per non far capire nulla di te. Insomma, il posto ideale per chi, come noi, ha un buon segno zodiacale – di quelli forti, esasperanti – o una forte propensione alla lettura di saggi, narrativa e fumetti. Un buon posto dove stare, illuminato male.
speculare /spe·cu·là·re/
aggettivo
Ha a che fare con gli specchi, oggetto per cui ho una predilezione. La metà della mela è una cosa, la chimera platonica, in cui ho sempre pensato di rifugiarmi quando mi sento sola. Ecco, speculare è la parola che fa per me quando provo la sensazione di profondo imbarazzo verso la mia solitudine. Alle feste, non accompagnata. Nei ristoranti, quando consumo senza un commensale tutto ciò che mi va di mangiare in quel momento. A casa, quando mi sporgo dalla porta della camera da letto e vedo solo e unicamente la mia bellissima carta da parati. Speculare, specchio, riflettere, essere. Io. Voi.
centro /cèn·tro/
sostantivo maschile
È il punto fermo in cui tutti vogliono rimanere. Il cuore delle cose, dei sentimenti, di ciò che si studia o si legge. Più esplicitamente significa stare in mezzo, nella parte mediana, se vogliamo essere veramente formali. Il mezzo non mi piace, o sto a destra o a sinistra. Basta cerchiobottismo. Quello che mi ha sempre affascinato è la sua spiegazione geometrica: cambia di forma in forma. Nella circonferenza è, per esempio, il punto equidistante da tutti i punti della circonferenza stessa. È un luogo, prima di essere una metà esatta. È una cosa che si può abitare. Dove ci si può fermare a meditare e, magari, capire tutte le cose di questo mondo.
onirico /o·nì·ri·co/
aggettivo
Ciò che riguarda il sogno e che spesso mi dimentico o che cerco di ricordare a fondo, facendomi male con i denti, con le unghie, con tutto il resto del mio cervello. La dimensione più simile all’ombra, che però porta alla luce tutto. La psiche, il cuore, la linearità delle cose.
segreto/se·gré·to/
sostantivo maschile e aggettivo
Tutto quello che precludo alla conoscenza altrui, quello in cui vivo e galleggio. Una roba che mi fa impazzire di gioia e in cui racchiudo tutte le mie fobie. Il segreto è tutto ciò che possiedo.
avventura /av·ven·tù·ra/
sostantivo femminile
Riguarda tutto ciò che non conosco e a cui attingo quando ho bisogno di scoprirmi di nuovo. Attraverso l’avventura posso testare quanto posso voler bene alla mia testa e al mio corpo. Può essere in un campo di grano sperduto o sotto la luce neon di un rifornitore di benzina.
rosso /rós·so/
aggettivo e sostantivo maschile
Non è solo un colore, è una dimensione. È ciò in cui siamo costantemente immersi, coperti da tanti strati di tessuti, ma senza mai una vera protezione. Il r. scorre imperterrito donandoci energie e dolori.
inquietudine /in·quie·tù·di·ne/
sostantivo femminile
L’insistenza dello scompiglio, il letto sfatto, la musica sconnessa, il sottotitolo su Netflix che arriva in ritardo, la questione che mi fa stare seduta a un tavolo guardando il vuoto, la macchia sul muro, aver finito l’acqua potabile, la doccia gelata, la camicia stropicciata, il cuore colmo di rabbia.
eye-liner /ai làinë/
sostantivo
Il più vicino dei cosmetici a farci venire le crisi di rabbia per la nostra propensione al disordine e alla difficoltà geometrica delle nostre mani. Che quando lo metti bene, in entrambi gli occhi uguale, hai conquistato l’Alsazia e la Lorena. E anche Fiume, vah.
linea /lì·ne·a/
sostantivo femminile
Il momento in cui un cuore muore. La parte più speciale di ogni oggetto. Il moto cui tendiamo con qualsiasi cosa, anche coi nostri piedi. Filosofia assoluta di ogni cosa che possiedo, in casa, dentro di me, nell’universo.
fraintendimento /fra·in·ten·di·mén·to/
sostantivo maschile
L’incompletezza della parola, lo sbaglio dell’altro, l’aglio per cipolla. L’ambiente che nessuno vorrebbe abitare, il peso da scaricare e, a volte, l’unica occasione per chiedere scusa.
apocalisse /a·po·ca·lìs·se/
sostantivo femminile
Rivelazione e profezia, ma anche botta di culo quando serve. Il posto in cui niente sarà uguale a prima, me la immagino come la consapevolezza dell’essere nessuno rispetto alla Natura. Non vedo l’ora che arrivi.
maschera /mà·sche·ra/
sostantivo femminile
Qualcosa che ci renda irriconoscibili oppure riconoscibilissimi. Copre le espressioni più veritiere del nostro viso, ma evidenzia gradevolmente l’attaccamento a ciò che passa e che per sempre saremo in forze di onorare.
trama /trà·ma/
sostantivo femminile
Il significato più puro di ogni storia, la geometria esatta del quantitativo di sentimento, qualcosa che finalmente finisce e che puoi correggere.
gravità /gra·vi·tà/
sostantivo femminile
Niente a che fare con il danno. È esclusivamente la consapevolezza di avere i piedi per terra. Ciò che è innato dal punto di vista animale e fisico, ma che dovremmo inculcare nel cervello dal primo respiro.
bilico /bì·li·co/
sostantivo maschile
Il luogo migliore in cui fare delle scelte. La pura fine della grammatica e il vero inizio dell istinto felino.
lacrima /là·cri·ma/
sostantivo femminile
Quando ero più piccola, chiedevo a mia madre come mai Brooke Logan producesse lacrime solo da un occhio. Era forse malata? Potevo farlo anch’io? Poi ho capito che la cosa più fantastica che un essere umano possa fare consapevolmente è sentirsi poco vulnerabile nel produrre stille di secreto lacrimale che fuoriescono dalla rima palpebrale.
casa /cà·sa/
sostantivo femminile
Il posto in cui puoi agire attraverso tutte – e molte di più- le parole qui sopra. Il luogo in cui il tuo cuore è veramente leggero. Dove, per sempre, continuerai a perpetuare la tua arte.

Ilenia Zedda
Nata a Sassari nel 1990, è una creative strategist freelance.
Ha collaborato con Il Salone del Libro di Torino, la RAI e l’Unione Sarda.
Diplomata alla Scuola Holden, si occupa di marketing e pubblicità e ha esordito nel 2020 con Nàccheras (Dea Planeta Libri) e Giallo Sardo (Piemme).
Simonetta Spissu
Di Traverso
Autoscatto della paladina di Photoshop
Suda sotto la parrucca gialla e il completo che le stringe la vita. Occhiali scuri. Un piede sospeso, su una sedia con il gomito che cerca di tenere tutto in equilibrio in una posizione innaturale. Nella mano destra, nascosta dalla testa, la sua pistola carica: un telecomando a distanza. In primo piano un faretto di scena.
Prendo il sole, ma dentro casa.
Guarda in alto.
Click.
Click.
Click.
Cade. Tutta la forza di gravità della terra si arrampica sul suo corpo e la butta sul pavimento. La velocità con cui sbatte il coccige le fa fiondare la lingua sui denti e sente il sapore di ferro sul palato.
Clickclickclickclick – cadere le ha fatto pigiare il tasto per lo scatto compulsivamente –
Che faccia avrà una che precipita?
Mentre si rialza, si sfila i guanti neri, si guarda la pelle, alla ricerca di qualche livido che le macchiasse tutto quel pallore. Se una prende il sole dentro casa con le luci da film, pare non ci si abbronzi.
Era isolana, ma dell’isola non aveva niente in superficie.
A parte il fatto che sono un’isola.
Entrata in quell’appartamento, lontano per una volta davvero, dalla casa che aveva abitato per trent’anni -odiandola, amandola, trovandola più spesso indifferente – aveva solo pensato a tutto quel bianco da poter sfruttare per le sue stampe. Per lei quella casa doveva esser il suo palcoscenico.
Doveva. Non poteva.
“Non c’è un mobile a pagarlo” aveva commentato uno che era entrato con lei a dare un’occhiata.
Ma chi se ne frega, aveva pensato lei. C’era quell’enorme parete vuota, come lei, da catturare, da deformare, da colorare. Tanti personaggi da appenderci momentaneamente sopra, il tempo di un
Click – aveva premuto per sbaglio un’altra volta il telecomando –
Che faccia avrà una che cammina senza sapere di esser fotografata?
La casa l’aveva bloccata subito, un bilocale che poteva permettersi alternando due vite come Clark Kent e Superman: di giorno maestra di Photoshop in ufficio, di notte paladina di Photoshop nello studio.
Che non era proprio uno studio, ma era quella enorme parete bianca che la risucchiava al suo interno e la risputava fuori completamente cambiata (d’abito, di lineamenti, di colore, senza la sua cronica paranoia, spogliata dalla sua costante timidezza).
Valeria aveva bisogno di tutto lo spazio da intrappolare che poteva prendere. Valeria era il buco nero dove finivano le cose per poi esser caricate sul suo pc, aperte da un programma di video editing.
Era passata in poco tempo – forse, troppo poco – dall’essere quella che dicevano che se la tirava in una cittadina provinciale all’impiegata pubblicitaria che si omogenizzava tra altre giacche gialle shocking.
Un bel salto no?
Più o meno come un click.
Prima mi dicevano: “Guarda che non siamo mica a New York” e volevamo farmi sentire fuori posto. Ora potrei andare in giro senza reggiseno e nessuno mi guarderebbe neppure.
Un click, ci sono.
Un click, non ci sono più.
Era ancora ferma su sé stessa, ci sarà rimasta un minuto intero senza muoversi. Eppure, non stava scattando alcuna foto.
Rimediamo subito, perché non si sa mai cosa tu non riesci a vedere e che invece l’obiettivo ha già inquadrato.
Click.
Prima si era liberata della parrucca. Abbandonata in un angolo, non serviva più. Era di nuovo Valeria. Qualsiasi cosa questo volesse dire (maestra di Photoshop in ufficio o paladina di Photoshop dentro casa?).
Si era seduta al pc che era in stand by. Ne aveva comprato uno che potesse rispondere velocemente ai suoi stimoli: non c’è tempo per computer addormentati. Subito lo schermo si accende su un file aperto. Carica velocemente dalla Canon le ultime foto e già le immagina di altri colori. Anche il vestito che ha addosso è un rosa semplice, che non è sufficiente.
Non sufficiente: non è un voto che posso tollerare. Dammi Insufficiente e mi farai felice, suona più onesto.
La realtà esisteva con toni troppo spenti per poterle interessare. Lei possedeva la capacità di accenderla con qualche
Click click click – faceva il suo mouse ritmicamente, intanto che dava fuoco a ogni centimetro del suo corpo nell’inquadratura.
Io sono ad Hollywood anche in un bilocale senza mobili, scalza, con vestiti in poliestere. Io sono una diva del cinema che recita la parte di Valeria, una che dalle 9 alle 18 si occupa di phoshoppare copertine per importanti brand internazionali. Poi torno dentro casa mia e torno a respirare il vuoto delle stanze e poi espiro fumo di sigarette che non ho neppure acceso: le tengo in bocca giusto il tempo di fare
Click
Click
Il gioco è fatto.
Rossetti, rossetti ovunque nelle sue foto. Ma durante il giorno lo evitava spesso e volentieri, perché era una paranoica cronica e una paranoica cronica non ha il permesso di avere della tinta sulle labbra – poi potrebbe finirle sui denti e passarci l’intera giornata a sorriderci sopra, con tutti gli occhi a ridere di questa sua specifica distrazione -. E non sopportava neppure il fatto che potessero sparire dopo un po’ di tempo senza che lei se ne potesse accorgere, se non troppo tardi.
Invece, con un click o due, quel rossetto sarebbe rimasto secco e pesto lì, dove aveva deciso lei. E se voleva andare via, lo avrebbe fatto perché il mouse lo aveva comandato.
Sulla sua pagina Instagram poteva avere due paia di occhi, i denti rotti, le gengive scoperchiate, le sopracciglia bianche, i buchi nelle mani, il caschetto giallo, il boa shocking sulle spalle, i capelli in bocca, la pelle stesa nelle mollette, i chiodi nella fronte e bere lacrime di mascara.
In ufficio poteva… guadagnare soldi.
Meglio lavorare che stare a morire dentro casa in attesa che lo sceneggiatore di Donnie Darko ti facesse precipitare un misericordioso motore di aeroplano in testa, togliendoti dall’impasse. Certo, meglio lavorare.
Ma in agenzia era Valeria, brava a modificare le foto, non a…
Click click click: forse ci siamo. Aveva trovato la giusta tonalità per colorare lo sfondo, che doveva restare chiaro, ma non bianco. Doveva esser un po’ sporco, con una certa profondità. Alle sue spalle c’era ancora e sempre, qualcosa da raccontare. Un’ombra, che lei pensava fosse Valeria, a ricordarle che prima o poi avrebbe dovuto sbaraccare tutto e preparare una cena che la tenesse in vita fino al mattino dopo, quando si sarebbe vestita con dei completi che per anni avevano infastidito gli abitanti della sua città e che ora sono quasi una tuta mimetica nella folla della metropolitana.
Lei lo poteva fare: andare a lavoro, prepararsi da mangiare, persino andare a letto presto dopo aver guardato qualcosa su Netflix e mettere una sveglia. A patto di poter tenere vicino il suo taccuino rosso, la penna infilata tra le pagine pronta all’uso. Perché le idee sono come le previsioni del tempo e non ti puoi mai fidare di quando ci azzeccano: allora devi metterle giù tutte e poi ricontrollarle più avanti. Solo così sapeva a cosa poi valesse davvero la pena fare
Click click
Click
Aperta sull’ultima pagina l’idea per il prossimo video: cosa faccio mentre non mi guardi. Il mio sport preferito.
Farmi schifo da sola. Medaglia oro da trent’anni a questa parte, ogni 4 mi rinnovano il podio. A Tokyo ho battuto Simone Biles e Naomi Osaka nel loro break down. Così, per dire.
Dopo circa diecimila click e qualcosina in più, era arrivata al grado di nitidezza perfetta. Uno strato dopo l’altro aveva costruito quel piccolo palcoscenico dove Valeria si sarebbe spogliata della paura di aver parlato inglese con i termini sbagliati a lavoro, dell’ansia di aver rivelato troppo della sua depressione di sottofondo costante, di aver troppa ricrescita, di averne troppo poca.
C’era lei dentro un quadratino, è vero, ma più libera di quando aveva attorno il mare di casa sua, che in realtà era un limite all’immaginazione stessa e mentre si innamorava di quella persona rifatta da un click e l’altro, già se la immaginava in formato cartaceo appesa in qualche galleria…
Qualcuno aveva fatto vibrare il suo cellulare, interrompendo quel rimbalzo continuo che dalla sua testa passava al desktop e da lì di nuovo dentro i suoi occhi restituendole uno scatto finale ancora diverso.
“Lavoravi?”, diceva il messaggio su Whatsapp.
Valeria – la paladina di Photoshop – non lavora quando è dentro casa.
E istintivamente
Click
E il computer si spegne ancora prima che potesse salvare l’ultima modifica al file. Ora si sentiva spiata.
Come se poteste davvero sbirciare un buco nero.
Le avevano detto delle volte: “Tanto poi lo vedo su Instagram, che differenza ti fa?”
“Non devi capirlo per forza” rispondeva lei.
Si siede a tavola, che lei aveva già apparecchiato prima di uscire dai suoi panni: aveva i colori tutti sbagliati e impalliditi dalla luce elettrica, ma andava bene lo stesso, perché facevano pandan con la sua faccia da 12 ore di consegne da rispettare.
“La cena è solo da riscaldare” aveva detto alla parete bianca.
Qualche ora di masticazione, di digestione, di lavata di piatti e di denti, intanto che lei assorbiva tutta la luce che poteva e la conservava per il suo taccuino rosso, aveva poi allungato il braccio verso l’interruttore
Click

Simonetta Spissu
Nata su un’isola nel 1989 da un parto gemellare, ha cominciato a scrivere di vermi che conquistano la terra dopo aver subito Tremors in tv e poi ha continuato con il suo primo romanzo scritto a 16 anni, “Manuale del perfetto suicida” per restare allegri. Non ha mai smesso di aprire pagine word tra romanzi che restano nel cassetto e racconti che si trovano sull’Internette (Carie, Crack, Daily Storm, Racconta un Libraio) o in raccolte cartacee (Brave con la lingua di Autori Riuniti e Racconti Gialli di Sui Generis). Ha aperto un blog mezzapenna, dove scriveva di altri libri e altri scrittori, che poi ha sepolto con tutto il suo contenuto. Attualmente è in attesa che qualcuno si accorga che lei è la prossima Rowling e intanto fa la giornalista, l’editor, la copy (e chi più ne ha più ne metta).